
Passiti: un dovere crederci
Il cambiamento climatico impone di riconsiderare la produzione dei vini passiti.
Che ci piaccia o meno, sarà il cambiamento climatico a convincerci che tutto ci verrà perdonato eccetto il non aver creduto maggiormente nei vini passiti, una tipologia che affonda le proprie radici nella nostra identità di Popolo.
Una sfida da raccogliere in molti, per dare al passito sardo il rango che meriterebbe nello scenario enologico globale, ripartendo da quei vitigni identitari o addirittura da alcune “varietà relitte” che si prestano all’appassimento e, quindi, ad ottenere ottimi vini dolci.
Vitigni spesso poco considerati o rimasti ai margini del l’enologia regionale, sovente provenienti da ceppi di uva bianca sparsi nel vigneto del cannonau, utilizzati negli uvaggi prima dell’avvento dei disciplinari dei più importanti rossi sardi che, soprattutto per le uve a bacca bianca, ne impediscono l’utilizzo per la produzione delle Doc.
Vini che evocano ricordi antichi come i passiti delle zone interne da Granazza, un vitigno antico a bacca bianca, “su Gucciu di Cannonau” tipico della sottozona del Nepente, “su Nuscadeddu” di Moscato bianco (nuscu che evoca il sentore e quindi la varietalità del vitigno), il Nasco, la Malvasia bianca o lo stesso passito da “Cannonau Biancu” proveniente dai vigneti più antichi che solo recentemente riaffiora nei testi di ampelografia.
Vini provenienti da zone con insolazioni importanti ma, allo stesso tempo, da suoli capaci di non disperdere l’umidità immagazzinata dal terreno nella stagione delle piogge. Quei suoli non particolarmente sciolti e drenanti che i nostri genitori chiamavano “terras di sustanzia”.
Spesso vini comprati al dettaglio, direttamente dal produttore, mai assenti nelle credenze di casa per onorare “sos cumbidos“, accompagnati da etichette scritte a mano con il toponimo del luogo di provenienza come “Gurrittocchinu”, “Sa Prama”, “Pappalope”, “Su Grumene”, “Sa Tanca ‘e su Carru”, e che ritornano in alcuni nomi commerciali di questi tempi a significare il genius loci che alberga in queste produzioni più che in altre.
Vini provenienti da uve con concentrazione zuccherina marcata, che arriva fino al 40%. Evoluzione di mosti densi, frutto di fermentazioni lunghe e con rese modeste – figli di “mosti che bollivano per 15/20 giorni” che continuano a darci vini dai sentori suadenti di quelle frutte secche lasciate nei magasinos a disidratare sulle stuoie o nelle corbulas di asfodelo.
Vini che riportano a fragranze che evocano albicocche, “pappassa” (lasciamo i sentori di uva sultanina ai passiti di altri areali) e fichi, appesi in lunghe trecce a seccare.
Produzioni le cui antiche pratiche non si discostano da quelle di altri territori extra regionali e soprattutto non diverse rispetto alle attuali tecniche di appassimento. L’appassimento in pianta e quello sui gratticci che, in limba, portavano a due differenti produzioni meglio note come ”durche naturale” il primo, e “durche assoliau” il secondo. Quest’ultimo proveniente da grappoli stesi al sole in “su cannitzu“, posto normalmente sui terrazzi, e coperti nel corso della notte per evitare l’insorgenza delle muffe. In entrambi i casi provenienti da grappoli preferibilmente un po’ spargoli e quindi capaci di far passare fra bacca e bacca l’aria per favorire un appassimento ottimale.
Vini del sentimento, che andavano a caratterizzarsi quali produzioni di nicchia per le funzioni religiose “binu ‘e missa”, o anche più grossolanamente “binu ‘e feminas”, cioè adatti ai sacerdoti e alle donne.
Nel primo caso, prodotti con estrema cura affinché arrivino sull’altare, anche ai nostri giorni, secondo le indicazioni del codice di Diritto Canonico (gerarchicamente, fra le fonti del diritto, in posizione di superiorità rispetto ai disciplinari di produzione) che dispone al canone 924 alcune caratteristiche, ossia: “vinum debet esse naturale ex genimine vitis et non corruptum“, quindi naturale, frutto della vite e non sofisticato. Il Diritto Canonico non insiste sul cromatismo del vino da celebrazione, tanto che al rosso, simbolo del sangue di Cristo, è stato sovente, forse per praticità, preferito il bianco.
Per curiosità: Papa Francesco celebra con un passito argentino, ma ha fatto uso anche di passiti sardi, mentre Benedetto XVI amministra l’Eucarisitia con un Moscato di Trani.
Rispetto alla Sardegna, attraverso il mondo dei passiti prende forma una parte della nostra identità ampelografica, innanzitutto perché quasi mai trattasi di vini provenienti da vitigni non locali.
Alcuni evocano sapori molto antichi che richiamano abbinamenti come i dolci di mandorle. Mandorle sarde, dolci e amare ricche di oli essenziali che trasferiscono sui prodotti finiti sensazioni olfattive e gustative irripetibili. Fra queste ricordiamo cultivar come: Olla, Regina, Arrubia, la rustica Schina de Porcu e la dolce Cossu.
Passiti da declinare come vini della festa che, con la loro dolcezza, accompagnano le nozze o i battesimi, spesso, nella tradizione, proposti in apertura, come aperitivo ante litteram, per il quale ritorna in molti casi l’abbinamento con la nostra pasticceria secca. O – perché no? – bevuti da soli come un liquore e abbinati a un buon libro e al fuoco che arde nel camino. Purtroppo non sempre offerti alla giusta temperatura o con un bicchiere adatto. Un limite che continua a pregiudicare il potenziale di questi preziosissimi vini.
Quasi mai proposti nella tradizione in abbinamento con prodotti sapidi come i formaggi, consuetudine oggi mutuata garbatamente da altre culture enogastronomiche. Un abbinamento che, soprattutto per i nostri formaggi piccanti e maturi, mostra notevoli affinità con passiti provenienti da uve cannonau (trattasi di un parere soggettivo).
Meno ricorrente in abbinamento con la sebàda, in chiusura di un pasto o di un banchetto nuziale, soprattutto quando questa viene preparata secondo i crismi della tradizione con un buon formaggio acido, rendendo più sfidante lo stesso.
Ancora oggi vini in attesa di essere riconsiderati all’interno del palinsesto di un pranzo o di una cena e per questo prodotti in quantità modeste tanto che le autorità pubbliche di controllo presenti in Sardegna ne certificano, purtroppo, numeri ancora ridotti. Proporzioni minime rispetto al mercato complessivo del vino sardo per un rilancio che attende l’enologia dell’Isola e la ristorazione sarda nell’ottica di una sempre più convinta promozione dei passiti regionali, in particolare all’interno delle proposte enogastronomiche che si rifanno alla dimensione ancestrale della nostra tradizione.