Favorita, il Vermentino del Roero

Favorita, il Vermentino del Roero

Roero, riva destra de Tanaro, qui il protagonista è il nebbiolo insieme al delicato arneis. Ma questa area del cuneese in passato era conosciuta anche per la coltivazione di un altro vitigno a bacca bianca, che vanta un numero interessante di sinonimi e qualche affinità fonetica a noi familiare: verlantin o varlentin ad Antibes e Nizza (cit. in Casalis e Rovasenda); malvoisie à gros grains sempre nella Francia mediterranea, pigato nel ponente ligure, furmentin o favorita nel cuneese, così come oggi quest’uva è indicata nella DOC Langhe. Nei terreni sciolti, sabbiosi e collinari del roerino, la favorita trova la sua vocazione migliore, perché le caratteristiche di quei suoli ne limitano l’innata vigoria vegetativa, incidendo positivamente sulla qualità dei mosti. Non è un caso che, nei di libri di cantina dei Conti di Roero di Vezza e di Guarene, la favorita compare già nel 1676 vinificata in purezza. Le ricerche genetiche recenti riconducono questo vitigno a un biotipo del vermentino, cosi come il pigato.

Come spesso accade i vitigni vivono alterne vicende fatte di gloria, abbandoni e timide riprese. Questo è il caso. Le prime barbatelle di favorita molto probabilmente furono portate attraverso l’antichissima Via del sale, che dalla costa ligure e provenzale raggiungeva le valli e le colline del cuneese. Vie battute da mercanti e contrabbandieri che rifornivano di sale e acciughe le valli piemontesi: un mondo raccontato in maniera suggestiva da Nico Orengo nel libro Il salto dell’acciuga. Bastano pochi indizi per nutrire un immaginario di profumi e sapori che ancora sono parte importante di una tradizione alimentare, dove l’acciuga compare in alcune preparazioni identitarie di questo angolo di Piemonte (es. bagna càuda, bagnet verd), pur così lontana dalle marinerie della costa ligure. Vero è quel che si dice, l’acciuga vuole saltare tre volte: nell’acqua di mare, nell’olio e nel vino. Meravigliosi cortocircuiti gastronomici costruiti sull’economia dello scambio di merci e saperi che viaggiavano a dorso di mulo. Non è priva di fascino dunque la storia di questo vino bianco profumato che dalla Provenza raggiunge le brumose colline piemontesi e lì trova il modo di esprimersi accanto ai robusti nebbioli. La storia dei vitigni, come quella dei vini, è storia di viaggi e di mescolanze; è complessa, fluida, fatta da comunità di uomini e di donne che in maniera empirica hanno adottato certe cultivar in luogo di altre per ragioni spesso di necessità, in un progressivo adattamento della specie al luogo. Adattamento che ha richiesto tempo, successi, fallimenti e molta osservazione sul campo.

Troppo spesso si tende a semplificare o, peggio, a non approfondire la cornice storica e antropologica, spingendo di più sul motore del marketing territoriale che sembra essere così potente e seducente da livellare persino la cura che alcuni produttori hanno nel diversificare le loro etichette. Insomma, vale la pena soffermarsi su altri aspetti per i vini che trattiamo nei nostri assaggi. Spostare l’attenzione su elementi che davvero radicano quel vino a quel luogo, e solo accidentalmente possono suscitare superficiali impressioni gustative, ascrivibili a descrittori come per esempio quello della mineralità, molto spesso identificato come elemento territoriale fortemente qualificante tout court, seppure aleatorio, quando non banalizzante.

Le uve del Favorita che ho degustato sono allevate nel Roero, su terreni calcareo-argillosi, dall’azienda Ciabot Berton di Marco Oberto. Una famiglia che da cinque generazioni coltiva nebbiolo in La Morra, semplicemente per tutti terra di straordinari Barolo. La cura di cui parlo sopra è proprio questa attenzione sensibile alla matrice storica di un vitigno, al legame con il territorio che fa scegliere di vinificare uve coltivate in quello specifico areale, perché lì da sempre esprimono al meglio il loro carattere di finezza nel vino.

 

Langhe Favorita DOC Alissa 2018 – Ciabot Berton (13% vol)

Alissa è un Favorita in purezza che presenta una veste paglierino tenue di intensa luminosità. Esordisce con rimandi floreali di sambuco e mandorlo, miele, agrume e pera fragrante. Al palato è rotondo e gessoso, con una scia fresco-sapida che chiude il sorso di buona persistenza. Il profilo olfattivo non cede in eleganza nella sosta in calice, anzi, con il variare della temperatura libera note terziarie che lasciano intuire il beneficio di una prolungata sosta in bottiglia.