Azienda giovane nel panorama isolano, giovanissima a ben guardare, pur se figlia di una stirpe di viticultori che da tre generazioni produce vino in Ogliastra.
Talmente pochi gli anni di vita del nuovo marchio di famiglia, voluto dai rampolli di casa Pusole, che suona perfino paradossale che se ne parli così bene fin dalla nascita, iscritta agli annali nell’A.D. 2012.
Incuriosito dal battage ho deciso, per una volta, di fidarmi delle sirene, acquistando la mia prima bottiglia del rosso “base”.
Azienda giovane nel panorama isolano, giovanissima a ben guardare, pur se figlia di una stirpe di viticultori che da tre generazioni produce vino in Ogliastra. Talmente pochi gli anni di vita del nuovo marchio di famiglia, voluto dai rampolli di casa Pusole, che suona perfino paradossale che se ne parli così bene fin dalla nascita, iscritta agli annali nell’A.D. 2012.
Incuriosito dal battage ho deciso, per una volta, di fidarmi delle sirene, acquistando la mia prima bottiglia del rosso “base”. Prima di una lunga serie, a onor del vero. Vigneron, Roberto Pusole, che l’anagrafe ignorava fino al 1986 e che tuttavia vanta in curriculum la frequentazione di scuole alte e una gavetta nelle Langhe che di certo qualcosa deve avergli lasciato. Dopo gli studi in enologia a Torino e un tirocinio nei paraggi dell’Università, decide di riportare le radici al loro posto. E qui, assieme ai familiari, si concentra sui vecchi ceppi di vitigni isolani, cannonau in primis, lascito parentale in quel di Lotzorai, entroterra ogliastrino di antica tradizione vitivinicola, splendidamente vocato. Per questioni di terroir, clima, uve e… manico, mi verrebbe da dire.
La visione di Roberto è rispettosissima di una precisa idea di far vino, lontana anni luce da super estrazioni e aggressività alcolica. Il suo Rosso sfiora a malapena i 13% e tutto pare fuorché sciroppo che tinge il calice. Bella vivacità per un granato scarico dagli intriganti bagliori rubino. Bouquet territoriale di ramaglie, sterpi, alloro, mirto. Profuma di frutta, sì, in tutte le declinazioni del bosco, ma la polpa non me la ritrovo nel bicchiere e di questo rendo grazie, perché posso godere di un sorso lieve, eccezionalmente a fuoco e calibrato su tipici ricordi di macchia mediterranea con un’intonazione minerale, quasi terrosa, di raro appeal. Ancora non c’è la confettura e l’integrità di piccole bacche rosse, lievemente acidule, segna l’assaggio: carezzevole ma dritto, nessuna resa alle morbidezze senza per questo incespicare sulle asperità.
Scorre leggero questo rosso e la piacevolezza, vero leit-motiv della degustazione, impone il bis, reso ancor più fluido da tannini di assoluta discrezione e bella verve fresco-sapida. Sconsiglio di comprare la bottiglia con l’idea che duri un paio di giorni. È pia illusione. Finirà in un baleno. L’estrema delicatezza del tratto, pur nell’evidente propensione alla verticalità, permette abbinamenti arditi, quasi da vino del nord se mi passate il luogo comune, e il corredo di profumi, spezie piccanti, erbe aromatiche, ciliegie, potrebbero addirittura far immaginare accostamenti con piatti della cucina orientale. Ma evitando voli pindarici, lo proporrei summo cum gaudio in compagnia di un arrosto magro, di coniglio, lepre o pollastro ruspante.
PS. Come sia possibile che un ragazzone barbuto, musicista per diletto e amante del rock più duro e tagliente reperibile su piazza sia riuscito a tirar fuori un capolavoro di compostezza e aplomb come questo, resta per me un mistero insondabile.