La Caricaghjola è un vitigno minore gallurese in via d’estinzione. La sua tutela può rivelarsi un’interessante esperienza di valorizzazione di un vino di territorio e della sua tradizione gastronomica, legata in gran parte alla sobrietà rurale degli stazzi.
La storia dell’enologia è ricca di vitigni autoctoni dimenticati, poi riscoperti e tornati ad essere vino in calice. Cito le esperienze positive del Cagnulari di Usini, della Granazza mamoiadina o dell’Arvisionadu di Benetutti, che oggi si tornano a bere con interesse. Produzioni amatoriali in vigne di famiglia che hanno tenuto quei ceppi silenti per decenni, dando spazio a uve di tendenza, più produttive o redditizie.
La Caricaghjola è un vitigno minore gallurese in via d’estinzione. La sua tutela può rivelarsi un’interessante esperienza di valorizzazione di un vino di territorio e della sua tradizione gastronomica, legata in gran parte alla sobrietà rurale degli stazzi.
Bacca negletta. Quando penso alla Caricaghjola o Caricagiola, penso alla storia di Cainà e al fortuito ritrovamento nella cineteca di Praga (1992) di quella pellicola che si credeva perduta. Girato nel 1922, il film ci racconta le vicende di una giovane ragazza che spezza le convenzioni, lascia le sue capre e i graniti della Gallura, e s’imbarca clandestina su un veliero. Custodire quell’opera del cinema muto girato in Gallura ci ha permesso di rivederlo ancora oggi, ci ha offerto uno sguardo diverso sulle cose, come tutte le narrazioni sanno fare: aprire alla diversità, dunque alla varietà.
La storia dell’enologia è ricca di vitigni autoctoni dimenticati, poi riscoperti e tornati ad essere vino in calice. Cito le esperienze positive del Cagnulari di Usini, della Granazza mamoiadina o dell’Arvisionadu di Benetutti, che oggi si tornano a bere con interesse. Produzioni amatoriali in vigne di famiglia che hanno tenuto quei ceppi silenti per decenni, dando spazio a uve di tendenza, più produttive o redditizie.
La Caricaghjola o Bonifaccenca è un vitigno a bacca rossa ancora vinificato in Gallura e Corsica, areale di elezione e tradizione. Dal punto di vista ampelografico sembra un parente stretto del Vermentino nero presente in Liguria e Toscana. La prima testimonianza lontana nel tempo si trova, ad oggi, in Ampélographie ou Traité de cépages (1845) del conte Odart, che lo annovera fra i vitigni corsi ma, secondo le sue fonti, proveniente dalla Sardegna e così scrive:
“On m’a écrit qu’elle avait été tirée de la Sardaigne où elle est toujours cultivée avec prédilection”.
Utilizzata come uva da taglio, questa cultivar sembra, però, avere un futuro vocato all’estinzione, a meno che la passione di un vignaiolo e le intuizioni di un enologo non vogliano cambiarne il destino. Nel 1970 erano 704 gli ettari censiti, 119 nel 2010, 81 nel 2014 (dati ISTAT, LAORE/ARGEA). Sappiamo che le vicende di un vitigno possono vivere alterne fortune: lo stesso Odart a proposito della Corsica cita quelle uve Vermentino, oggi eccellenza enoica, allora niente più che les plus estimés pour la table. Sì, proprio uva da tavola.
Vino di territorio, di terra più che di mare. La salvaguardia della Caricaghjola potrebbe essere un interessante veicolo di promozione del territorio e della sua tradizione gastronomica poco marinara, fatta di cibi che sono espressione della sobria ruralità contadina degli stazzi. Trovare una bottiglia in purezza non è facile, neanche in Gallura dove fra le produzioni autoctone imperversa la monocromia giallo-paglierino o dorato delle uve Vermentino.
Quella che mi sono procurata è del 2014 e arriva dall’agro di Aglientu, che ha del paesaggio gallurese tutti gli elementi, ma con un’enfasi quasi archetipica: i graniti, le campagne poco abitate e ben ventilate dalle brezze tese delle Bocche di Bonifacio. Qui si trovano le vigne dell’azienda agricola Campesi, precisamente in località Vignola, un toponimo che da solo suggerisce l’uso storico di quei suoli.
I Campesi vendemmiano un unico ettaro di vecchi ceppi di Caricaghjola, da cui si ottiene il Karkà. Il vino si presenta di un bel rosso rubino intenso. Al naso sentori di frutti rossi, ciliegia e mora, che lasciano subito spazio a una nota di liquirizia, corteccia, gariga. In bocca l’attacco è asciutto con tannini in evidenza, caldo, morbido e sapido. Buona la persistenza della sua rustica complessità gusto-olfattiva.
Matura in acciaio per 5-6 mesi. La nostra Cainà lo avrebbe servito con cosciotto di capretto allo spiedo al profumo di mirto oppure con invitanti fette di supprissata, salame di suino tipico gallurese.