Un autoctono di cui restano oggi pochi ettari vitati che ha nel suo corredo gli stessi lieviti indigeni della Vernaccia di Oristano e della Malvasia di Bosa. Un contributo all’Arvisionadu di Benetutti nella sua rara tipologia flor, da riscoprire e valorizzare.
Quindici sono gli ettari censiti sull’isola ad oggi, in gran parte nei comuni di Bono e Benetutti, Goceano.
Un autoctono di cui restano oggi pochi ettari vitati che ha nel suo corredo gli stessi lieviti indigeni della Vernaccia di Oristano e della Malvasia di Bosa. Un contributo all’Arvisionadu di Benetutti nella sua rara tipologia flor, da riscoprire e valorizzare.
Vite, morte, rinascita
Ci sono pochi, anzi pochissimi vini al mondo che evolvono in ambienti ossidativi: il merito va ai lieviti di natura indigena che risalgono sulla superficie del vino in botti scolme. Nella risalita il loro metabolismo cambia e da fermentativo diviene ossidativo. Materia organica che si adatta a nuova vita in microscopiche forme esagonali. Sofisticate geometrie biologiche che proteggono il vino dal contatto con l’ossigeno, con cui imparano ora a convivere.
Quel velo bianco e leggero è la flor e preparerà il liquido fermentato a confrontarsi con il tempo. Dalla leggerezza di questo processo di ascesa nasce qualcosa con caratteri olfattivi che ricordano invece il deperimento della materia, che decade, appassisce, volge in tinte calde, giallo dorato e ambra, in sentori di frutta secca a guscio, mandorla, nocciola.
Due grandi bianchi sardi, la Malvasia di Bosa e la Vernaccia di Oristano, devono a questi lieviti il loro speciale status.
Poi c’è un terzo vino, un bianco minore. Ma in enologia, come abbiamo visto, le grandezze sono relative: è l’Arvisionadu o Arvesiniadu, per citare solo alcune varianti con le quali è conosciuto. Quindici sono gli ettari censiti sull’isola ad oggi, in gran parte nei comuni di Bono e Benetutti, Goceano. Incontro Giampaolo Sanna a Benetutti, giovane agronomo che all’arvisionadu ha dedicato la sua tesi di laurea, e presidente della locale confraternita a tutela di questo vitigno.
Mi prepara a un giro di vigne e piccole cantine amatoriali, tutte in prossimità del centro abitato. Sono situate fra i 300 e i 400 metri sul livello del mare, terreni sciolti e granitici, ben ventilati con un’esposizione sud-est, sud-ovest e una bella escursione termica giorno-notte: presagi di finezza. Eppure Vittorio Angius nella prima metà dell’Ottocento scrive di Benetutti: “Le vigne sono molte, tuttavia corrispondon poco. Il vino è bianco e nulla pregiato. Quando sopravanza dalla consumazione distillasi in acqua vite.” Angius aveva una sua idea di vino ben fatto. Non sappiamo cosa abbia bevuto, però ci dice una cosa importante: il vino è bianco, dunque le varietà a bacca bianca sono quelle più coltivate già all’epoca in questo areale.
Benetutti non è mai stata, mi confermano, terra di rossi. Assaggiamo un primo sorso spillato dalla vasca nella cantinetta di Sanna. Scalpita ancora, ma ha già un naso che preannuncia una gentile, fruttata soavità. In primavera, mi assicurano, sarà al suo meglio. Intanto, prendo confidenza con gli elementi che poi torneranno in tutti gli assaggi successivi: freschezza e sapidità ben in evidenza, con una nota leggermente amara sul finale. Un vino sottile, che non ha velleità di complessità olfattive, perlomeno non in questa variante. Su nou, il nuovo, è cosi, dicono altri vignaioli che ci raggiungono alla spicciolata. Fanno parte anche loro della Confraternita.
Io però cerco l’altra versione più rara, quella florizzata che nessuno vinifica più. O quasi. Nella seconda tappa, altra vigna altra cantinetta, si affaccia come una possibilità. In questo caso, Tore Bellu ha vendemmiato tardivamente ottenendo un un grado alcolico che si avvicina ai 14 gradi alcol. Un veloce scambio di opinioni rende concordi che questo campione ha buone possibilità di esprimersi in flor. Occorrono però determinate condizioni che Alfredo Bitti, terza tappa, altra vigna, altro confratello, finalmente ci racconta stappando prima un altro nou (2016), e poi finalmente un florizzato 2015.
Passavamo sulla terra (quasi) leggeri
Sergio Atzeni mi perdonerà per la citazione di un suo libro meraviglioso dove il protagonista, Antonio Setzu, il penultimo dei “custodi del tempo”, racconta il mito di una terra, quella sarda, con una narrazione orale imbevuta di sorsi di vino, un vino atemporale. La sensazione che si riceve, bevendo quell’Arvisionadu florizzato è un po’ questa. Un liquido zeppo di strati olfattivi, non quotidiano, di pertinenza altra rispetto al vino-nutrimento. Un lusso che ha bisogno di tempo, appunto.
Alfredo ha lasciato il liquido fermentato in un recipiente scoperto a temperatura non controllata. Ne parla come se quel vino fosse il risultato a metà fra un esperimento di cantina e un incidente. Una creatura strana che ha cominciato a seguire le sue esigenze vitali, manifestando presto l’indole dei lieviti indigeni. Lo assaggiamo e capirlo è come fidarsi dei miti raccontati dal personaggio di Atzeni, che per loro natura ci aiutano a superare le nostre finitezze. Gli schemi degustativi, all’interno dei quali abbiamo imparato a muoverci, davanti a un piccolo miracolo enologico come questo cedono il passo.
Giallo dorato intenso, al naso scorze di arancia in caramello, uvetta sotto spirito, gariga. In bocca l’ingresso e asciutto, secco e caldo, fresco e sapido, con un lungo finale ammandorlato. Intenso e persistente, porta con disinvoltura i suoi 15 gradi alcol. Il tempo gli sarà di conforto e non di peso. Lo proviamo con gli amaretti locali preparati per l’occasione. Le due cose messe insieme ci regalano un abbinamento sfacciatamente raffinato.
Penso a una narrazione possibile, ma non trovo appigli. Solo un richiamo per analogia alle tinte calde e alle figure materiche delle tavole del Retablo di Sant’Elena del Maestro di Ozieri (?-1554), nella parrocchiale qui a Benetutti. Di rustico quella pittura non ha nulla, neppure questo vitigno fatto vino in questo modo. Qui l’uomo ha saputo leggere la natura assecondandone le regole, ponendosi in ascolto. Ne ha fatto cultura e bellezza, seppure nelle forme effimere del vino.
Si procede con altri assaggi, fra cui l’Arvisionadu della Confraternita, quello di Donatello Cherchi, e infine da Piero Sini. Assaggi che diventano anche il racconto della caparbia volontà di una piccola comunità che vuole tutelare la specialità di questo vitigno. Questo intende fare la Confraternita, che cerca di capirne il futuro. Questo fa anche Pino Mulas, sempre a Benetutti con il suo G’Oceano, ottenuto dai tre ettari di vigneto dedicati a questa piccola e rara perla nel panorama dei più blasonati bianchi sardi.
Lunga vita, dunque, all’Arvisionadu e al suo corredo di mutanti saccaromiceti!