L’incantevole panorama della celebre spiaggia della Pelosa di Stintino ha fatto da cornice alla presentazione dell’ultimo libro di Licia Granello, I Sapori d’Italia dalla A alla Z, edito da Gribaudo Feltrinelli. Un incontro informale e ad alto tasso di convivialità, nel quale l’autrice ha avuto modo di dialogare in maniera estremamente rilassata con un’attenta e competente platea di addetti ai lavori e appassionati. Ed è stata anche l’occasione per scambiare due chiacchiere con l’illustre giornalista e scrittrice.
Licia Granello, di origine torinese, si è occupata a lungo di sport su Repubblica. Dal 2001 ha deciso di spostare l’attenzione su alimentazione e gastronomia, diventando in breve tempo un punto di riferimento a livello nazionale e non solo. Nel 2004 nasce la rubrica “I Sapori”, seguitissima doppia pagina dell’edizione domenicale di Repubblica. Docente di Antropologia dell’Alimentazione all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ha pubblicato quattro libri: Mai fragole a dicembre (2007, Mondadori), Don Alfonso 1890 (2011, Gribaudo), Il gusto delle donne (2012, Rizzoli) e I sapori d’Italia dalla A alla Z, uscito a maggio.
Licia, presentando il tuo ultimo libro, hai iniziato sottolineando la basilare importanza di ogni seppur minima scelta alimentare, ribadendo ancora una volta come mangiare si configuri come un vero e proprio atto politico. Puoi spiegare meglio il concetto per i nostri lettori?
“Noi siamo ciò che scegliamo, a cominciare dal cibo. Se compro un cibo standardizzato, pensando solo a risparmiare qualche centesimo, o se compro un cibo di un artigiano serio, privilegiando i concetti di buono, pulito e giusto, chi ha prodotto quei cibi ne sarà premiato. In un senso o nell’altro”.
Recentemente, su queste pagine, ho recensito il bel film-documentario Langhe DOC, incentrato su tre storie di piccoli produttori, coraggiosi ed “eretici”, concludendo con un’amara riflessione sull’assurdo sistema di priorità, nel quale viene data pochissima importanza a qualità e salubrità di cibi e bevande a vantaggio di altri beni voluttuari. Quale pensi possa essere il ruolo dei media nel trasmettere modelli culturali virtuosi?
“Purtroppo siamo il paese di Bengodi, ma senza cantastorie. L’industria può investire risorse importanti per indurre i consumatori all’acquisto, i piccoli invece non hanno voce. E chi potrebbe raccontarli, non esiste. Da 15 anni, Repubblica mi stipendia per studiare, elaborare e diffondere la cultura del cibo. Sono l’unica giornalista dipendente di un quotidiano in Italia a fare questo di mestiere. Nessuno si sognerebbe di inventarsi giornalista economico, o esperto di politica estera. Ma tutti si sentono autorizzati a scrivere e a far scrivere professionalmente di cibo. Editori e direttori in primis. Considerando la nostra condizione di paese-simbolo della cultura gastronomica, non so se sia più ridicolo o vergognoso”.
In una recente intervista pubblicata sul nostro sito, il tuo collega Gianni Mura ha individuato nella maggiore presenza femminile uno dei fattori determinanti nel miglioramento dell’immagine complessiva della sommellerie. Tu stessa hai dedicato un libro (Il gusto delle donne) all’importanza dell’impronta femminile nell’eno-gastronomia. Per sintetizzare con una frase a effetto, possiamo dire che saranno le donne a salvare il mondo (almeno il “nostro”)?
“Il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha recentemente dichiarato che nessun traguardo di pieno sviluppo del mondo sarà possibile finchè metà del pianeta non avrà pari diritti e pari opportunità. Dall’alba dell’Umanità, le donne nutrono e custodiscono. In italiano, non esiste il maschile di nutrice, né di balia. Le cuoche non sfilano in tv, non fanno i giudici nei reality, non posano per le riviste. Cucinano e nutrono, rispettando la terra, per proteggere i propri figli e il futuro del pianeta. Che degustino vino o caglino il latte, dalle loro mani passa molto del futuro di madre Terra”.
Uno degli aspetti che ho sempre apprezzato di più nella tua rubrica domenicale è la completezza: accanto alle tue avvincenti narrazioni trovano spazio ricette, indirizzi di ristoranti e botteghe e, soprattutto, contributi “esterni” di altissimo livello, dal grande Massimo Montanari, a Carlo Petrini, a scrittori come l’esempio recente della nostra conterranea Michela Murgia. Un’efficace ed evidente dimostrazione di come cibo (e vino) siano Cultura con la C maiuscola.
“Il professor Montanari ha dedicato tutte le sue energie al concetto di cibo come cultura, senza se e senza ma. Il cibo è nutrimento, condivisione, piacere, sentimento, allegria, amore. Dobbiamo smettere di pensare che sia una merce. La cintura firmata o l’ultimo modello di cellulare non entrano nel nostro corpo, trasformandolo, come invece fa continuamente il cibo che ingeriamo. Per questo, non dobbiamo subire il cibo, eleggendo supermercati e 3×2 a modelli del nostro mangiare, ma cominciare finalmente a sceglierlo. Per vivere bene (quello che risparmiamo nel cibo lo spendiamo in medicine!) e far vivere bene il nostro pianeta”.
Come hai spiegato durante la presentazione, nel tuo libro non è presente il vino perché si tratta un universo talmente vasto che meriterebbe uno spazio specifico e non residuale. Ci puoi parlare di come è stato il tuo approccio iniziale con il vino e il ruolo che poi l’universo enoico ha ricoperto nella tua attività e nei tuoi approfondimenti?
Mio padre era di Treviso, mia madre è di Radda in Chianti. A casa Granello abbiamo sempre bevuto bene! Devo molto a Gianni Mura. Andando in giro spesso insieme per questioni calcistiche, mi ha insegnato che bere è una scelta, non un obbligo. Quindi, se vuoi bere, bevi bene! Ricordo benissimo quando mi raccomandò di comprare qualche bottiglia di Tignanello e Sassicaia, “perchè se anche le lasci lì dieci anni, non ti deluderanno”. Non costavano pochissimo. Ma gli diedi retta, ne comprai sei e sei. Era il 1985. Ne ho ancora due, una per etichetta. Due vini fantastici. Chi ha assaggiato le Terre Brune, fratello sardo del Sassicaia, sa di cosa parlo”.
Nel tuo libro è presente anche un angolo di Sardegna, impersonato da Alessandra Pinna che, insieme ai fratelli, porta avanti un appassionato discorso nel quale l’estremo rigore produttivo si traduce in prelibatezze in grado di raggiungere autentiche vette di eccellenza. Tu stessa hai confessato che lo spazio a disposizione ti ha costretto a dolorose scelte. Per cui ti chiedo: ci puoi raccontare qualche altra realtà isolana che probabilmente troverà spazio nelle tue prossime pubblicazioni?
“Non mi piace fare nomi. Ma se riuscirò ad ampliare la visione de I Sapori d’Italia con un nuovo progetto, sarà bello raccontare la Sardegna con le facce, le mani, la sapienza e la schiena dritta della sua gente”.
Grazie Licia, alla prossima!