Il Guardiola proviene da uno dei principali cru di proprietà della Tenuta delle Terre Nere e si svela al degustatore con una personalità nitida, ben distinta dagli altri vini dell’azienda.
Non è che per forza serva un confronto per definire le qualità o i difetti di un vino. La valutazione comparata non è detto che sveli necessariamente tutto, anzi: può essere che per ragioni di sintesi si tenda a semplificare anche oltre il dovuto, mortificando un prodotto con quattro righe in corpo dodici. In preda ai dubbi dopo la mia ultima recensione, rinuncio per questa volta all’intervista doppia ma, conoscendomi, temo che durerà poco.
Il Guardiola proviene da uno dei principali cru di proprietà della Tenuta delle Terre Nere e si svela al degustatore con una personalità nitida, ben distinta dagli altri vini dell’azienda: il Feudo di Mezzo mi era parso più largo e dinamico e forse più adatto ad essere apprezzato in gioventù; a paragone questo vino è quasi austero, senza scomodare irrispettosi raffronti con il nobile lignaggio del Prephylloxera, ottenuto da uve a piede franco ultracentenarie. Poi, studiando la filosofia aziendale, tutto acquisisce un senso e un ordine ma in un mondo in cui le regole le decide solo il vigneron: esaltazione del territorio e netta distinzione dei prodotti a seconda dei cru di provenienza. Può non piacere, soprattutto se si cerca il famigerato “stile aziendale” tuttavia ogni passaggio è dichiarato e, in fondo, un denominatore comune c’è ed è già espresso nelle intenzioni del produttore che, durante una conferenza stampa, arrivò a dire di volere che i suoi vini fossero “roccia liquida”.
Come descriverlo allora il Guardiola, fatto quasi per intero con uve nerello mascalese e, in piccola percentuale, nerello cappuccio? Granato scarico con qualche bagliore aranciato, buona la vivacità, si presenta nel bicchiere abbastanza consistente. Al naso ammalia: pot-pourri di fiori e timo essiccato, viola appassita, frutta nera disidratata, capperi, roccia frantumata, note ferrose e di terra, caffè in polvere, tabacco Kentucky, cenere. Sentori di iodio e solvente chiudono ma senza apparire soverchianti.
Al sorso riconosciamo ciliege in confettura e marmellata di arance Sanguinello, la speziatura vira dalla vaniglia al cardamomo, troviamo anche la corteccia di china, poi l'impressionante rimonta minerale che sostiene il vino più della freschezza conferendogli slancio nonostante l'età anche grazie ai tannini che, per quanto levigati dal tempo, sono ben presenti. In sintesi la morbidezza c'è ma risultano più definite le componenti dure senza che, in termini assoluti, si perda l’equilibrio. Il vino è nel complesso abbastanza strutturato, composto ed elegante: le sole voci fuori scala sono la mineralità e l’interminabile PAI. Se dovessi sintetizzare direi che la trama è fitta ma tessuta con la seta. Le diverse componenti convergono verso una verticalità composta, armonica: gli elementi sono arrangiati in funzione della specifica impronta minerale che non sa tanto di mare, se non fosse per un'insopprimibile scia iodata, ma è puro distillato di terra vulcanica. Il frutto pare quasi addomesticato, le componenti morbide sono soltanto un pretesto per accordare il sorso alle note sapide e speziate. La struttura è solida ma leggiadra come un soffio: ricorda una ballerina che affronta la fatica apparentemente senza sforzo. La sensazione che lascia è quella di un prodotto di gran carattere definito, forse con qualche eccesso comunicativo, un Borgogna mediterraneo.
Vero è, come sostenuto dal patron Marc De Grazia, che il territorio etneo è “un'isola nell'isola” e che i vini di quest'areale niente hanno a che vedere con i vini del sud. Curioso che proprio De Grazia, tra gli artefici della contestatissima rivoluzione degli anni ottanta in terra di Barolo, faccia un vino che tutto pare fuorché figlio di quella filosofia – per così dire – modernista e U.S.A.-oriented tanto in voga tra gli epigoni del gusto internazionale. I maligni potrebbero pensare che, da buon commerciante, abbia fiutato un cambiamento nelle tendenze dei consumatori che, da alcuni anni, pare prediligano maggiormente freschezza e mineralità e quindi abbia di conseguenza riconfigurato le sue strategie di marketing. Lo dimostrerebbe, tra l'altro, il crescente interesse del mercato americano per i vini siciliani.
Ma c’è poco da fare: la terra dell'Etna un carattere proprio ce l'ha. Basta provare i vini di altre aziende della zona per accorgersene: che siano di Graci o di Palari – solo per citarne alcuni – poco conta. L’apporto sinergico del suolo e degli influssi marini, consolidato da condizioni climatiche particolarissime, conferisce alle uve un timbro unico. Che poi questo terroir incontri i favori del mercato può dipendere da fattori contingenti o, forse, da una diversa consapevolezza del consumatore che cerca nei vini l'espressione di un territorio oltre che uno stile produttivo riconoscibile.
Solo un consiglio sull'annata 2006: ha ormai molte vendemmie alle spalle. Dovendone acquistare una bottiglia, suggerirei un millesimo più recente. Io, purtroppo, in enoteca ho trovato solo questa. Ma la berrei ancora mille volte. Da provare con pappardelle al ragù di lepre.