Sabato 26 settembre 2015 AIS Sardegna ha offerto ai suoi associati un’occasione imperdibile per accostarsi ad un mondo davvero magico come la Borgogna, degustandone le eccellenze enologiche accompagnati da un “Virgilio” d’eccezione, Armando Castagno. Relatore davvero “hors catégorie”, pienamente degno di uno dei due nomi (l’altro è Diego) portati all’immortalità dal più grande calciatore di tutti i tempi. Abbiamo già parlato a lungo e dettagliatamente dell’incontro, però in questa sede ci preme rivolgere qualche domanda all’illustre collega nonché illuminato relatore, dopo aver superato una certa sorpresa per l’incredibile somiglianza con Gary Sinise (il Mac Taylor di CSI: NY).
Che ne dici, Armando?
E’ vero, la somiglianza con Gary Sinise è indiscutibile, ancor più evidente quando ero più filiforme, diciamo così. Addirittura anni fa venni fermato a Roma da un gruppo di turisti giapponesi che urlavano “Gary Sinise, Gary Sinise”. Al che, ricordo che iniziai a parlare inglese e a firmare autografi come Gary Sinise. Salvo poi scoprire, e questa è una lancia spezzata a favore degli appassionati dello zodiaco, che Gary Sinise è nato il 17 marzo, proprio come me.
Devo dire che, sempre a livello di somiglianze, a me ricordi anche un po’ il grande Beppe Viola.
Gary Sinise (col tastevin)
Ma guarda, col fisico attuale ricordo più Rafa Benitez!
Bene, esaurito il capitolo somiglianze, passiamo alla “carta d’identità” sotto forma di autocertificazione. Ci puoi raccontare come ti sei accostato all’AIS e il tuo percorso all’interno dell’Associazione?
Alla fine del ‘93 ho iniziato ad interessarmi di vino, quando ho acquistato la guida Veronelli (che custodisco ancora, gelosamente) e ricordo che mi aveva davvero stregato. Rimasi due, tre mesi a leggerla in continuazione, quasi in loop. Poi ho approfondito il personaggio Veronelli e da lì sono arrivato a Brera, Monelli e alla letteratura enoica del ‘900, molto interessante perché fatta prevalentemente da scrittori strappati alla loro attività letteraria, diciamo così ortodossa, e approdati ad una attività eterodossa come quella della comunicazione del vino e dell’enogastronomia.
Poi, nel ’98, leggo su Repubblica di una gara di degustazioni alla cieca (io, all’epoca avevo fatto alcuni corsi di avvicinamento, in enoteca, senza peraltro capirci granché) presso la sede dell’AIS, all’Hilton. Mi presento, trovandomi in mezzo a tanti sommelier in divisa, e, da perfetto outsider, partecipo alla gara che consisteva nell’accoppiare 18 denominazioni ad altrettanti vini (9 bianchi e 9 rossi) serviti alla cieca. Succede che, dopo aver indovinato tutti e nove i bianchi, azzecco anche sette rossi su nove, vinco la gara e vengo avvicinato dai maggiorenti di AIS Roma che mi propongono di frequentare i loro corsi. L’anno dopo inizio il corso di 1° livello, mi diplomo all’inizio del 2001 e poi la solita trafila, esame da degustatore, quindi da relatore e poi, dopo una parentesi bellissima e per me basilare presso la rivista Porthos – diretta da Sandro Sangiorgi, per la quale ho lavorato qualche anno – ho iniziato, dalla fine del 2003, ad insegnare in AIS e a collaborare, dal n° 6, con l’allora rivista dell’Associazione, Bibenda, per la quale ho scritto 28 monografie, proseguendo poi la collaborazione sull’attuale rivista dell’AIS, Vitae. Continuando, parallelamente, anche il mio percorso di divulgazione che, come avrai notato, è un po’ atipico, non troppo allineato.
Uno degli aspetti più rilevanti nella recente evoluzione del ruolo del Sommelier è la centralità dell’aspetto della comunicazione. Il Sommelier deve essere sì un esperto del settore, ma in grado di raccontare un vino e di comunicare la magia di questo prodotto.
Sono completamente d’accordo. In coerenza con la convinzione che il vino sia una mera espressione culturale, penso che debba raccontarlo solo chi ha un forte spessore culturale. O almeno, per chi vuole raccontare il vino, penso ci sia il dovere di formarsi un forte spessore culturale. Ricordo, a margine, che Veronelli era un dotto di tipo rinascimentale, Mario Soldati si è laureato in Storia dell’arte con Roberto Longhi, Paolo Monelli era uno dei più importanti giornalisti della prima metà del ‘900, Gianni Brera era un intellettuale a tutto tondo, fino ad arrivare a Cernilli, che è laureato in filosofia, e a cari amici come Fabio Rizzari, collega e maestro dalla cultura veramente impressionante in vari campi, come i lettori di “Vitae” sanno bene; in generale, chiunque si occupi di vino ha il preciso dovere di non sminuirlo costruendosi una semplice preparazione tecnica. Se si pretende di raccontare un vino basandosi solo sulla conoscenza tecnica si rischia di essere noiosi, ripetitivi e ci si presta ai dileggi che, effettivamente, non mancano.
Sì, certo, la stucchevole e “notarile” elencazione di descrittori “alla Albanese”, priva di qualsiasi forma di narrazione.
Ecco, a proposito, volevo però dire una cosa. L’ascoltatore dovrebbe fare lo sforzo di capire che quelli che noi usiamo come descrittori, ad esempio della parte aromatica di un vino, non sono tentativi di divinazione delle molecole presenti effettivamente nel vino stesso. E l’obiezione che il tale sentore non è presente nel vino in quanto manca la molecola che gli dà origine, è un’obiezione grottesca, risibile, come la faccenda del dito e della luna. In prosa, rendere un profumo è una vera velleità e una volta che, in buona fede, si trovano gli strumenti linguistici per descrivere un profumo, un aroma, una sensazione che si prova, e li si condivide con chi legge o ascolta, ci si deve adeguare, anche nel mondo del vino, ad un gergo, ad una convenzione. A me fanno ridere gli sproloqui fatti ovunque, in Europa e in America, sulla presunta insussistenza dei descrittori minerali motivata col fatto che i minerali non avrebbero profumo. Io rivendico, per chiunque scriva di vino, il diritto di esprimersi come crede, usando gli strumenti linguistici, cercando di permeare chi legge della stessa sensazione, anche a costo di utilizzare descrittori bizzarri o che contraddicono la fisica. L’importante è leggerli rendendosi conto che si tratta di prosa, non di un testo tecnico.
Nella splendida narrazione che ha accompagnato la degustazione delle eccellenze provenienti dalla Côte-d’Or, mi hanno colpito soprattutto alcune tue condivisibili affermazioni. In una ponevi quasi una domanda al mondo del vino italiano: “Cosa fare da grandi?”. Cioè, seguire la valorizzazione assoluta del terroir o fare finta che esista un “gusto internazionale” a cui omologarsi. Puoi dirci qualcosa di più?
Il mondo del vino italiano deve interrogarsi su quale tavolo giocare. Io ritengo che l’Italia debba sedersi al ristrettissimo tavolo di quelle nazioni in cui la produzione qualitativa di vino – non quella popolare o massiva, evidentemente – mantiene la promessa che fa in etichetta, cioè vendere un’interpretazione del territorio meno invasiva possibile, vale a dire vendere molto più territorio che stile. E’ la strada francese ed è, secondo me, la strada culturalmente più interessante. Ovviamente, le nazioni che non hanno una storia di produzione territoriale così profonda non possono invece che basarsi sul “grado zero” della produzione vitivinicola, cioè sull’espressione varietale, che è una specie di espressione di serie. Una dotazione di serie che i vitigni hanno e quindi si punta sui vitigni. L’Italia, dal punto di vista della comunicazione, molto spesso fa vedere di voler puntare sulla storia, sugli stemmi, sulle famiglie, sul territorio, su denominazioni che riportano nomi di luoghi come Barolo, Barbaresco, Chianti Classico e così via, poi però, andando a guardare la realtà, non tutti tengono fede a quest’impegno preso (in etichetta) con il compratore della bottiglia. Invece tendono a valorizzare qualità varietali che, tutto sommato, sono abbastanza riproducibili.
C’è il caso eclatante del Prosecco.
Ma sì. Noi abbiamo fatto questa splendida cosa del prosecco, puntando come nome della denominazione sulla varietà (Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene), salvo poi renderci conto che anche all’estero si poteva fare un vino chiamato Prosecco, visto che il prosecco è iscritto nel registro delle varietà d’uva, perché nessun organismo internazionale tutela un vino col nome del vitigno, come invece avviene per i nomi di luogo (vedi il caso Tokaji). Per cui ci siamo dovuti affannare per poter registrare quel marchio e cambiare identità al vitigno (ripescando l’antico nome glera), impedendo così di usare il termine prosecco a chi legittimamente l’aveva fatto, come noi usiamo regolarmente merlot, cabernet sauvignon, etc. L’Italia può e deve essere in grado di vendere qualcosa di irriproducibile, legato al territorio, ed è per questo che la comunità internazionale lo tutela. Il concetto di luogo è fondamentale.
Certo. Che poi dovrebbe essere proprio questo l’elemento fondante del concetto di denominazione d’origine. Qui in Sardegna, invece, abbiamo dei chiari esempi in controtendenza, con numerose denominazioni, estese a tutta l’isola, che riportano il nome del vitigno, come le due più diffuse Cannonau di Sardegna e Vermentino di Sardegna.
Esatto. E’ vero che, a volte, l’interesse internazionale è meno vivo, non credo che ci sia un “caso-cannonau” nel mondo, tant’è che è un nome addirittura locale di un’uva che invece è presente in tante parti del Mediterraneo assumendo nomi diversi a seconda del luogo. Però, a mio giudizio, un Cannonau di Romangia è diverso da un Cannonau di Oliena, i Cannonau dell’Ogliastra sono molto più eleganti di quelli di Barbagia, che a loro volta hanno valori aromatici completamente diversi da quelli che provengono da Alghero, e così via.
L’altra tua interessante affermazione riguarda il rapporto tra vino e legno: quando nel vino è presente un marcato sentore di legno, è SEMPRE un difetto, per quanto sovente si cerchi di arrampicarsi sugli specchi usando termini eleganti come boisé, etc. Puoi spiegarci meglio questo concetto?
Ma qui non c’è una conoscenza enoica da sbandierare, c’è il buon senso. Se c’è un modello che ha successo, prendiamo quello borgognone che conosco meglio, e si tenta nel mondo di imitarlo, per esempio in bianco, proponendo chardonnay lavorati nello stesso modo, con batonnage, malolattica e affinamento in legno piccolo, etc, e ci si accorge che i mosti, i vini prodotti altrove, magari oltre oceano, non riescono ad avere, rispetto a quelli borgognoni, la stessa incisività, la stessa capacità di emancipazione, di liberazione dal legno, allora per sdoganarli si inventa il “gusto americano”, il “gusto internazionale”. In realtà, quel vino nelle intenzioni non doveva sapere di legno, ma si dice comunque “ci piace così” imponendo un modello che è semplicemente fallimentare, questa è la verità. E a quel punto, nella critica internazionale, nasce il concetto di “legno professionale”, “legno dolce” “buon legno”, “legno appena appena da integrare”. Se si sente il legno, il vino ha preso dal contenitore; e qualunque bevanda, se prende del contenitore, è fatta male. Il non saper dominare il legno è un’insipienza. Nessun produttore sano di mente vuole fare un vino che sa di legno!
Proprio di recente ho presentato, durante una manifestazione in corso ad Alghero, il film Barolo Boys: in una sequenza molto significativa si vede il famoso “guru” James Suckling deglutire, dopo un rumoroso gargarismo, un Barolo (all’epoca, “modernista”) e affermare: “Ah, benissimo, questo sentore di vaniglia tipico del nebbiolo!”
Eh, hai capito?, diventa tipico del nebbiolo. Secondo me, il caso dei Barolo Boys è molto emblematico, perché il gruppo storico (Altare, Scavino, Chiara Boschis, Sandrone, etc.) in realtà, che io sappia, si riuniva quasi clandestinamente, assaggiando grandissimi vini e tentando di avere questi come archetipo. Mi ricordo che proprio Chiara mi raccontava di riunioni serali tra questi ragazzi giovanissimi, i cui genitori nemmeno sospettavano l’esistenza di certi vini, che stappavano monumentali etichette, soprattutto borgognone. Solo che il nebbiolo non è il pinot nero di Borgogna, necessita secondo me di tutt’altro trattamento, di altro savoir faire. Fermo restando che il nebbiolo di langa non è inferiore al pinot nero di borgogna, sotto nessun profilo
Come abbiamo detto, la Borgogna è davvero il trionfo del terroir. Però è altresì vero che la sua magia è indissolubilmente legata a due soli vitigni, chardonnay e pinot nero. Nel film-cult (almeno a parer mio) Sideways, il protagonista Miles declama un’appassionata ode al pinot nero: “E’ un’uva ardua da coltivare. Ha la buccia sottile, è sensibile, matura presto. E, insomma… non è una forza come il cabernet che riesce a crescere ovunque e fiorisce anche quando è trascurato. No, al pinot nero servono cure e attenzioni. Sì, infatti cresce soltanto in certi piccolissimi angoli nascosti del mondo. E solo il più paziente e amorevole dei coltivatori può farcela, è così. Solo chi si prende davvero il tempo di comprendere il potenziale del pinot sa farlo rendere al massimo della sua espressione. E inoltre, andiamo… oh, i suoi aromi sono i più ammalianti e brillanti, eccitanti e sottili e antichi del nostro pianeta.” Puoi dirci qualcosa in più su questo nobile vitigno?
Allora, in Borgogna, scrivere pinot nero su un’etichetta è vietato per qualsiasi vino che abbia la benché minima ambizione. E’ consentito soltanto per la denominazione di base, quella regionale, quasi a scusarsi con il consumatore del fatto che il vino possa avere dei sentori varietali. Come dire, ti vendiamo un Bourgogne ma anche un pinot nero, purtroppo, perché non siamo riusciti ad andare oltre il varietale. Chiunque si azzardasse a scrivere il nome del vitigno sull’etichetta anche di un semplice Village o, peggio ancora, Premier Cru o Grand Cru, si vedrebbe subito sequestrato il vino. Il pinot nero è semplicemente la più qualitativa lente d’ingrandimento sul territorio che si sia mai riusciti a trovare in Borgogna. Se ne sono accorti nel 1395 e, da allora, è sempre e comunque stato un semplice strumento nella gestione legislativa del vigneto borgognone che ha la messa a fuoco non certo sul pinot nero, ma sulla espressione del carattere dei singoli vigneti, che sono quasi 1300, catalogati e accatastati.
Tu sei un grande appassionato di ippica. Uno dei più grandi cavalli di sempre, Ribot, apparteneva alla scuderia di Mario Incisa della Rocchetta, divenuto poi protagonista assoluto nel mondo del vino con l’azienda Tenuta San Guido. Ribot morì nel 1972, quando cominciarono ad apparire le prime annate del Sassicaia. E’ una piccola forzatura, certo, ma con un po’ di fantasia possiamo parlare di un ideale passaggio di testimone a livello di eccellenze assolute?
Ribot
Come dici tu, è una forzatura. Innanzitutto, Incisa della Rocchetta è il proprietario che ha sostenuto il vero “inventore” di Ribot, al quale non possiamo negare la citazione, trattandosi di uno dei più grandi geni italiani del ‘900, Federico Tesio, il più importante allevatore e uomo di cavalli del XX secolo nel mondo. Non ha progettato solo Ribot, che anzi è nato quasi per caso, ma tutti i più grandi cavalli italiani della prima metà del ‘900. Nearco, il più grande stallone italiano, imbattuto come Ribot, poi Donatello, Tenerani, Botticelli, un’infinità. Un genio assoluto che a Dormello, sul Lago Maggiore, ha creato un allevamento che ha cambiato la storia dei purosangue. Tuttora, i più grandi cavalli che vincono le corse più importanti del mondo hanno nel pedigree, in linea maschile, immancabilmente, in quinta o sesta generazione, Nearco. Per cui, Ribot è un prodotto di Tesio più che di Mario Incisa della Rocchetta, e qui già si allontana il parallelo col Sassicaia.
E poi, il Sassicaia, a mio parere, ha caratteri opposti a Ribot, che era pura potenza. Un cavallo piuttosto compatto, con un giro di polmoni impressionante, vincitore di tutte le sedici competizioni che ha corso. Lo vedo più come un vino che fa strike, mentre il Sassicaia è un vino che somiglia molto agli Incisa, di estrema nobiltà, sobrietà, misura. Un vino di stile nettamente francese, l’unico vino di Bolgheri, checché se ne dica, che si possa effettivamente confondere con un grande Bordeaux, alla cieca.
Recentemente hai conseguito la seconda laurea, stavolta in Storia dell’Arte (dopo quella in Giurisprudenza). Non posso ovviamente avere una conoscenza approfondita come la tua, però ho sempre ammirato la pittura impressionista. Anche perché, in un certo senso, mi è sembrata affine alle produzioni di vino più ispirate (come la Borgogna). Massima attenzione per il paesaggio/terroir, centralità della soggettività dell’artista/vigneron, etc. Mi piacerebbe avere la tua qualificata opinione.
Georges Seurat – La grande jatte
Eh, vediamo. In Borgogna, a volte, c’è più rigore. Se proprio si vuole restare all’800, forse la Borgogna, essendo fatta di materia primaria (molti fattori di produzione fissi come il vitigno, l’esposizione, il terreno, i sesti di impianto, il protocollo di vinificazione), può essere accostata, più che al primo Impressionismo (quello che da Manet arriva fino a Monet, Pizarro, etc.), alla deriva che porta l’impressionismo verso il Puntinismo (o, addirittura, il Divisionismo), cioè a Georges Seurat. Ecco, se proprio vogliamo forzare la mano, Seurat può essere l’artista che incarna l’idea del Borgogna, cioè un vino fatto di elementi primari che però, visto da lontano, li riassume insieme dando un’immagine di abbagliante verità.
In conclusione, inevitabile parlare della “Magggica”. Per una questione anagrafica, penso che nel tuo imprinting di tifoso ci sia la Roma dei primi anni ’80, una squadra piena di fuoriclasse e di veri e propri artisti. Possiamo azzardare che in quella squadra irripetibile convivevano la soave concretezza dell’opera d’arte e la “pura potenza senza peso” (parole tue) dei vini di Borgogna?
Herbert Prohaska
Io ho sempre avuto un debole, nel calcio, per i metronomi, i numeri 4, i giocatori che fanno da perno a centrocampo e che danno il ritmo all’azione, determinando il baricentro della squadra anche attraverso passaggi apparentemente molto semplici. Ce n’era uno, nella squadra che vinse lo scudetto nell’83, che era un vero uomo chiave, Herbert Prohaska. Come alcuni Borgogna, un po’ austeri, passava inosservato perché non era quasi mai nel tabellino dei marcatori, eppure ci si accorgeva, quando non giocava, di quanto la squadra faticasse a trovare il bandolo della matassa. In parte lo ha imitato, anni dopo, Giuseppe Giannini, giocando un po’ più avanti. Purtroppo un tipo di giocatore oggi molto raro, più di quanto non siano i vini che gli somigliano. Vini che, con discrezione, sobrietà, hanno però una geometria al loro interno e, come avrebbe detto il mio maestro Sangiorgi, una loro interiore pace. Ecco, un’ipotesi di vino molto interessante è il “regista basso”, e in Borgogna ce ne sono tanti perché il vitigno si presta, visto che comunque non fornisce né tanto colore, né effetti speciali particolari, a parte alcune denominazioni del resto molto celebri.
Questa tua attenzione per i soggetti laterali sulla scena, ai margini delle luci dei riflettori, si nota anche nei vini che scegli come oggetto di studio.
Certamente sì. Guarda, la mia passione per i deuteragonisti, piuttosto che per i protagonisti, si vede anche, come dici tu, nella scelta, a volte apparentemente autolesionistica, degli argomenti di cui scrivo sulla rivista Vitae (e, prima ancora, Bibenda). In genere, preferisco parlare di storie laterali e secondarie, piuttosto che dal successo già conclamato. E quindi spazio a Rossese di Dolceacqua, Colline Novaresi, Marsala, Boca, Fiorano, storie che mi piace far uscire alla luce e che, certo, se dovessero basarsi sul loro limitato potenziale comunicativo, faticherebbero ad avere visibilità. E conto di proseguire ancora su questa strada.
Ce lo auguriamo di cuore! Grazie ancora, caro Armando, per questa lunga e divertente chiacchierata. Inutile dire che ti aspettiamo nuovamente in Sardegna. Comunque, l’appuntamento è per metà novembre a Milano, al Congresso Nazionale AIS. Ci saremo, in tanti. A presto!