Il vino è emozione. E di emozioni è stata ricca la serata organizzata dall’AIS Gallura al ristorante Runway di Olbia dove Lucia Pintore ha coinvolto e affascinato un pubblico di sommelier vecchi e nuovi con la sua indiscussa, trascinante bravura.
Il vino è emozione. E di emozioni è stata ricca la serata organizzata dall’AIS Gallura al ristorante Runway di Olbia dove Lucia Pintore ha coinvolto e affascinato un pubblico di sommelier vecchi e nuovi con la sua indiscussa, trascinante bravura. Lucia lo ribadisce con molta franchezza, questo incontro è nato da riflessioni sparse, da spunti, concetti e tematiche che affrontati senza una preordinata linea di continuità hanno via via dato forma ad un racconto in cui gli argomenti e le problematiche si son dipanate finendo per costruire un insieme articolato e composito. Questo personalissimo percorso è diventato l’argomento del seminario, un’occasione che ha voluto essere uno sprone e un invito forte rivolto ai sommelier perché siano sempre più consapevoli del loro ruolo di degustatori, responsabili per ciò che comunicano e trasmettono.
Premesse essenziali per raggiungere questo obiettivo devono essere quelle dell’applicazione allo studio, della verifica, della ricerca e di una condizione d’autonomia di pensiero che oggi sembra essere sempre più latitante di fronte ad un omologarsi alla banalità delle mode. Come la relatrice stessa precisa, nella sua conoscenza ormai trentennale del vino, spesso è dovuta ritornare sui propri passi perché molte delle certezze acquisite, codificate sui libri o affermate come verità indiscusse, alla luce di approfondimenti e analisi puntuali, mostravano non pochi cedimenti e contraddizioni.
Lo svolgersi dell’evento, suddiviso tra stacchi teorici e degustazioni di vini di stili diversi, inizia da dove tutto ha origine, dalla vigna, dall’importanza della differenziazione, in una parola, dal terroir, concetto mediato dalla Francia di cui solo da qualche decennio in Italia si sta cominciando a capire l’importanza sebbene i riferimenti normativi in materia, puntualmente citati, siano ancora carenti. Son bellissimi i paesaggi ricchi di vigneti delle nostre regioni. Ma al di là dell’indiscussa bellezza, molti sono i problemi anche gravi che in vigna si devono affrontare. Si pensi, per esempio, all’importanza dell’acino in cui sono presenti tutte le componenti che servono al vino perché ognuna di esse partecipa a costruirlo come un mosaico.
La sua maturazione va dall’esterno all’interno, secondo parametri diversi, fino al cuore in cui si trovano i vinaccioli. Questo per dire che apparentemente l’acino potrebbe sembrare maturo ma per evitare sorprese il controllo effettivo va fatto con competenze e strumenti agronomici adeguati. Cura e cultura del vigneto sono dunque le premesse da cui non si può derogare nella produzione di un grande vino. Individuare il frutto migliore, in piena maturazione crea le potenzialità di estrarre tutto ciò che di positivo ci sarà nel prodotto finale. Un frutto acerbo non darà mai sensazioni importanti ma sempre qualcosa di neutro e banale. Fattore fondamentale è la diversità dell’uva. Tanto ha fatto nei secoli l’uomo per far sopravvivere la vite in posti difficili, spesso considerati impossibili.
L’alberello è la forma di allevamento che è stata scelta perché identificata come quella con maggiori possibilità di sopravvivenza in zone caldo aride, molto ventilate. Passano le splendide immagini dei vigneti sardi e quelle di Pantelleria dove l’alberello è patrimonio dell’Unesco. Qui la vite è piantata a paniere per essere riparata dai venti. Compare l’Etna con i suoi vigneti. A Lanzarote nelle Canarie la vite è allocata dentro un vulcano e da pochi decenni si produce un vino a denominazione di origine. Sono molti i territori nel Mediterraneo caratterizzati dalla sabbia lavica come ad esempio i vigneti del Vesuvio in cui si trovano viti a piede franco, persino difficili da datare. Bisogna analizzare i vini prodotti da queste vigne per quello che sono, precisa la relatrice, senza farsi trascinare da giudizi modaioli. Non ci si deve mai affidare ad un unico approccio per valutare un vino ma è necessario considerare tutte le variabili create dal lavoro dell’uomo.
Partendo da questa considerazione si sofferma proprio sui vigneti coltivati a piede franco, ancora presenti in varie parti del mondo. Si riproducono per propaggine. Impiantare oggi un vigneto franco di piede è sconsigliato in quanto la filossera potrebbe propagarsi danneggiando altri impianti. La suggestione dei paesaggi che sfilano sullo schermo è davvero grande, ma come sottolinea la relatrice, non sempre la bellezza del luogo è sinonimo di buon vino. Il miglior suolo del mondo, la vigna che abbia la fortuna di essere nel terreno più vocato senza un governatore attento, da sola non potrà dare buoni risultati. La foto di un vigneto di malvasia dà lo spunto per procedere nel discorso.
La malvasia, vitigno cosi elegantemente mediterraneo nella sua declinazione aromatica, può produrre grandissimi vini. Eppure nel tempo è stato messo da parte, maltrattato e spesso ignorato a favore di vitigni più facili e produttivi. Questo vitigno ci richiama gli aromatici. Con i loro profumi particolari, sono riconoscibili sempre, anche quando la mano dell’uomo non sia stata particolarmente attenta. Si pensi al moscato, per esempio, tra i suoi molteplici cloni ci sono grandi differenze di colore e di timbri aromatici più o meno intensi che, a seconda delle scelte enologiche perseguite, si prestano a interpretazioni di stili molto diversi tra loro. All’interno di questa famiglia, molto pregiato è quello a piccoli acini, da tanti abbandonato perché delicato e non particolarmente produttivo.
I vitigni semi-aromatici dal forte impatto olfattivo sono sempre riconoscibili. Alcuni di loro erroneamente identificati con l’erbaceo. L’erbaceo non è tipico di un determinato vitigno ma espressione di uve che non hanno conseguito una piena maturazione. Questo racconto si dipana per considerazioni e concetti che si richiamano l’un l’altro, dalla vigna al vitigno, dal grappolo alla cantina e ai processi di vinificazione fino al prodotto finale, limitatamente però, nell’incontro odierno, ai soli vini bianchi. A tale proposito, la relatrice ricorda che, per la loro produzione, non molto tempo fa si lavorava con le uve acerbe pensando che il loro carattere distintivo dovesse essere l’acidità. In realtà le sostanze aromatiche aumentano progressivamente in relazione ai livelli massimi di maturazione dell’uva e poi tendono a degradare. Occorre soffermarsi sul fatto che tutte le variabili sono importanti e nessuna di esse gioca da solista o può essere considerata da un’unica prospettiva.
Gli zuccheri sono presenti nell’uva in quantità mutabili che dipendono dalla maturazione, dalle scelte agronomiche e dagli obiettivi che ci si prefissa di raggiungere. Gli zuccheri principali, responsabili della fermentazione alcolica, sono glucosio e fruttosio; altri non fermentescibili contribuiscono alla morbidezza del vino. Nelle uve immature si ha una maggiore percentuale di glucosio che ha un potere dolcificante minore rispetto al fruttosio, ma i lieviti ne fanno una metabolizzazione veloce e di conseguenza si avranno vini più semplici. Se invece la maturazione è stata adeguata il rapporto tra glucosio e fruttosio è di uno a uno, quindi equilibrato. Nella surmaturazione dell’uva prevale il fruttosio, i lieviti lo metabolizzano lentamente rallentando la fermentazione e questo crea le premesse per vini di maggior profumo e concentrazione. Naturalmente, il verificarsi di questa situazione non sempre dipende da una scelta vendemmiale ma può essere conseguenza delle annate. Maturazioni diverse dell’uva daranno luogo a quantitativi differenti di acidità. In realtà, quello che interessa non è tanto conoscerne le quantità ma come si percepiscono. Nel vino son presenti sia gli acidi propri del frutto che quelli di neoformazione.
La forza degli acidi si esprime in ph che va teoricamente da 2,70 a 4,10. Se il ph è basso si percepirà un’acidità maggiore se il ph è più alto l’acidità sarà percepita meno. A seconda del grado zuccherino che ha il mosto, si può prevedere il grado alcolico che sarà presente nel vino. Per misurare gli zuccheri si usano mostimetri e rifrattometri o analisi chimiche. Ci sono diverse scale saccarometriche utilizzate in paesi diversi. Il grado babo, per esempio, esprime il peso dello zucchero in 100 gr di mosto, il brix lo misura in 100 ml di mosto ossia in volume. Quest’ultimo è il più usato in quanto più preciso, infatti, 100ml sono riferibili ad un volume certo, mentre 100 g di mosto hanno un volume variabile.
Nel presentare la legislazione europea sono stati presi in esame i prodotti vitivinicoli da essa contemplati in riferimento alle caratteristiche organolettiche. Si rinvia ad altra occasione di approfondimento il 17° prodotto vitivinicolo (l’aceto). In merito allo zuccheraggio viene precisato che mentre in Francia è consentito l’uso di saccarosio, in Italia è proibito ad eccezione che per particolari tipi di vini come il vermouth e gli spumanti. Il grado zuccherino è imposto dal disciplinare, ma è possibile correggerlo sotto altre forme: taglio, mosto concentrato, mosto concentrato rettificato (MCR) e concentrazione.
E’ d’obbligo una domanda: se il mosto è povero in partenza, questi interventi sono effettivamente migliorativi? I vini pregiati non sono frutto di correzioni.
Un’attenzione particolare viene riservata all’anidride solforosa, spesso demonizzata, che svolge al contrario svariate positive funzioni. E’ selettiva, antisettica, inattiva i microorganismi negativi, è solubilizzante e riducente. E’ subordinata a diverse condizioni, per esempio, al ph del vino. Più è basso, più è attiva. Può presentarsi in forma libera, combinata e molecolare. Appena aggiunta è sotto forma libera poi tende a combinarsi con diversi componenti del mosto e del vino. Al momento dell’imbottigliamento svolge una funzione di protezione rispetto all’ossigeno, estremamente pericoloso anche in questa fase, in quanto demolisce le molecole odorose, ossida le sostanze e produce imbrunimento.
Nel tempo poi i solfiti si trasformano in solfati e quindi non sono più attivi. Chi si occupa di vino non dovrebbe ignorarne né le azioni positive né l’evoluzione e di conseguenza non dovrebbe esprimere giudizi immediati e frettolosi quando la sente nel bicchiere salvo non ne rilevi una quantità eccessiva. Come per il mosto anche per il vino è necessario conoscere la legge che lo riguarda, magari partendo proprio dalla definizione specifica che recita: “Per vino s’intende il prodotto ottenuto dalla fermentazione parziale o totale di uve fresche pigiate o no o di mosti d’uva”. La Comunità Europea fissa le norme in riferimento alle zone in cui si opera, per gradi alcolici minimi, acidità totali, etc., tenendo conto dei diversi prodotti vitivinicoli.
Di particolare importanza è la temperatura di fermentazione, trattandosi di un processo eso-termico. E’ differente in relazione al fatto che si tratti di un bianco, un rosato o un rosso e a seconda del valore del prodotto di partenza. Con la diminuzione della temperatura, si rallenta la fermentazione e a volte si favorisce un’accentuazione dei colori che potrebbero essere più intensi. L’abbassamento della temperatura produce meno esteri di fermentazione, può intensificare i profumi di frutta matura ed esotica e la struttura potrebbe esserne arricchita grazie ad una maggiore produzione di glicerolo, prodotto secondario della fermentazione ma di particolare importanza per il corpo del vino. E’ ovvia la considerazione che se la materia prima di partenza è povera sicuramente non si arricchisce in relazione alla temperatura.
La relatrice sottolinea con enfasi che si tratta di una visione distorta quella di chi afferma che il vino si fa in vigna o che non bisogna intervenire perché fa tutto la natura, e si sofferma in particolar modo sulle componenti del vino in relazione alle sensazioni organolettiche che sono capaci di suscitare. Grande importanza ha dedicato a quelle provocate dall’alcool non tanto in riferimento alla quantità ma al rapporto di esso con le altre sensazioni.
Altro argomento trattato è quello della “fermentazione” malolattica, che consiste nella degradazione dell’acido malico ad opera di batteri. A volte prende l’avvio verso la fine della fermentazione alcolica; altre quando questa è terminata, oppure alla ripresa dei tepori primaverili e in determinate situazioni non parte affatto. Uno dei suoi effetti è un aumento del ph in parte per riduzione degli acidi e in parte per la trasformazione dell’acido malico in uno più debole (lattico). Parlare semplicisticamente degli effetti positivi della malolattica può essere fuorviante nel senso che essa necessita di un controllo attento. Infatti i batteri, se non vengono inibiti una volta completata, possono generare situazioni particolarmente negative. Talvolta, per effetto di deviazione del processo, possono produrre sentori di burro e di formaggio o peggio, vere e proprie malattie. Molte di queste, eliminate da alcuni decenni, negli ultimi anni sono nuovamente comparse. La causa è da ricercarsi nella scarsa pulizia del prodotto che sta diventando diffusa, in nome di una presunta ritrovata “naturalità” dei procedimenti di vinificazione.
La limpidezza del vino è fondamentale. “Un vino stabile non è solo limpido, ma evolve meglio nel tempo” sottolinea la relatrice citando Emile Peynaud. Nell’elencare puntualmente le fasi della vinificazione ribadisce l’importanza assoluta della pulizia enologica. E’ d’obbligo una constatazione: più si deve intervenire più si spoglia il prodotto. Possono esserci però sedimenti tollerati, tipo i tartrati, ma bisogna saperli riconoscere. La decantazione, spesso messa in pratica, ha la finalità di separare un deposito che sia presente nel vino, ma non serve per un vino velato o torbido che rimarrà comunque tale anche se sottoposto a questo passaggio.
Si riprende l’argomento del colore già precedentemente accennato. Frequentemente si sente dire che nei vini bianchi il giallo con riflessi verdolini è sinonimo di gioventù, ma esso potrebbe essere solamente la conseguenza di un frutto acerbo oppure l’effetto di chiarifiche che hanno eliminato il giallo delle catechine. Tali procedimenti vengono spesso impiegati per tentare di rivitalizzare un colore spento. Il colore giallo deciso non è sempre sinonimo di evoluzione, potrebbe essere derivato dal frutto e da una corretta maturazione dello stesso. In questo senso sono emblematici i primi tre vini in degustazione, in quanto hanno tre colorazioni differenti pur essendo tutti dell’annata 2016. Sono infatti, figli di uve diverse dotati ciascuno di un patrimonio personale identitario.
E’ quindi da rigettare la credenza secondo la quale il colore del bianco necessariamente deve evolvere verso il giallo intenso, poi verso il dorato e l’ ambrato. E’ importante ricordare che in situazione di riduzione, ossia in bottiglia, il colore deve permanere stabile salvo non si sia verificata un’ossidazione. A questo proposito è necessario tenere bene a mente che il tappo non deve svolgere nessuna funzione di micro ossigenazione, come erroneamente si sente affermare, ma, al contrario, ha il compito di isolare e proteggere, aiutato in questo anche dalla solforosa. Solo l’affinamento avviene in bottiglia, non la maturazione. Più i vini fanno bottiglia, se ovviamente partono da una situazione di non ossidazione e sono ben stabilizzati, più possono amplificare il bouquet. Viene sottolineato che è un falso mito credere che un vino bianco possa esprime la maturità solo se condotto ad invecchiamento in legno. Spesso tali vini più che la maturità evidenziano la stanchezza e lo fanno esibendo, oltre al colore dorato (dato dal legno), sentori di resina e di frutta “stanca di vivere”.
Proseguendo in questo discorso la relatrice affronta il tema degli Orange Wine. In questi prodotti il mosto rimane a lungo a contatto con le bucce. Si tratta di una macerazione prolungata che estrae un tannino inutile. A questo punto tutto si ossida e si ha come conseguenza l’arancione e l’imbrunimento. I vasi vinari adoperati sono sia di legno che anfore, belle a vedersi, ma spesso senza protezione. Il vino che ne risulta è spesso poco gradevole, a volte ruvido, ossidato e aranciato. Non che non sia possibile fare un macerato che non sia arancione, ma solo qualche produttore è riuscito ad ottenere realmente buoni risultati. Comunque non è la via migliore: è solo una via. Si constata con amarezza che, attualmente, dentro questa categoria hanno trovato dimora una miriade di vini che sono dei prodotti del tutto inaccettabili.
Precisa la relatrice che tutto ha avuto inizio con una moda importata dalla Croazia nelle zone di confine, quasi che, nella sua storia millenaria, l’Italia non avesse alle spalle una salda tradizione enologica e avesse avuto bisogno d’ imparare qualcosa in materia da chi era specializzato in altro e non in vino. Sempre in relazione alle mode del vino, parlando di spumanti, analizzando puntualmente legislazione e tecniche produttive, rimarca una recente tendenza che consiste nel lasciare lo spumante a contatto con le fecce senza eliminarle. La definisce un’ involuzione enologica dannosa e inutile che ha come conseguenza sentori sgradevoli e gusti anomali al vino.
Terminata questa prima fase del seminario si inizia con le degustazioni dei primi tre vini: Greco, Fiano e Falanghina, ognuno proveniente da vigneti siti in zona d’elezione, posti alla falde dell’Appennino Campano. Tutti IGP CAMPANIA 2016.
Le degustazioni sono state fatte alla cieca e, in ogni batteria, i vini sono stati presentati contemporaneamente.
Questi primi derivano da tre vitigni diversi ma con identica tecnica produttiva. Il paragone tra essi è particolarmente significativo per trovare riscontri con quanto detto precedentemente. Con questi tre prodotti la cantina Alabastra fa il suo esordio per la prima volta in pubblico. Sebbene i vini siano da poco in bottiglia e manchino del periodo di affinamento, sono risultati comunque godibili e hanno dimostrato, attraverso le sensazioni organolettiche, il loro grande potenziale evolutivo.
Il confronto vien fatto innanzitutto sul colore. Il Greco si presenta con un giallo paglierino carico. Il Fiano con un giallo paglierino meno intenso del precedente, mentre la Falanghina è di un deciso giallo dorato, espressione di un frutto più ricco in partenza di sostanza colorante. All’olfatto, il Greco manifesta sentori di frutta fresca matura (bergamotto, cedro) e lievemente floreali di fiori d’arancio; il Fiano è più potente e più ricco di una decisa complessità nella quale la frutta fresca si alterna a note floreali, mielose e minerali. Infine la Falanghina colpisce per il manifestarsi di spiccati sentori di frutta esotica e candita, molto intensi ed avvolgenti. Al gusto, il primo ha mostrato una freschezza supportata da un profilo aromatico importante, da un sapidità garbata e da un ottimo equilibrio. Il Fiano ha regalato accattivanti sensazioni di miele, esprimendosi con morbidezza, freschezza e sapidità. La Falanghina, entrata al gusto con una setosa, avvolgente, morbida saporosità, ha presentato da subito un’intensa persistenza aromatica. I tre vini in questione derivano, come si è detto, da vitigni molto diversi tra loro per cui il profilo identitario di ognuno è stato reso ancora più distinguibile grazie ad una rigorosa pulizia enologica che ha consentito espressioni di netta eleganza.
Si procede quindi con una breve introduzione dei territori dell’Alsazia. Compaiono sullo schermo le immagini di splendidi vigneti. Vengono precisate le norme di questa regione in merito alle vendemmie tardive, e se ne puntualizzano le caratteristiche in relazione alla specifica, solida tradizione vitivinicola. I Pinot Gris in degustazione sono ottenuti da due differenti gradi di maturazione delle uve. I due vini sono di Zind Humbrecht uno dei migliori produttori di bianchi al mondo.
Il Pinot Gris Herrenghen de Turckheim 2013 presenta un colore paglierino carico, un fruttato imponente, esotico e minerale, figlio di una grande maturazione del frutto e di una perfetta esecuzione enologica. Freschezza importante, grande morbidezza, spiccata sapidità e corpo concorrono ad una lunga, intensa persistenza aromatica.
Il Pinot Gris Clos Jebsal Vendange Tardive 2005 presenta un giallo dorato carico e consistente. Una maestosa intensità olfattiva si apre in ampie espressioni di note odorose ben identificabili in frutta matura, candita, spezie dolci e decisa mineralità. Al gusto è amabile, setoso, vellutato, d’intrigante pienezza. Notevole la persistenza aromatica intensa in un contesto di piena armonia.
Si conclude con la parte riguardante i vini liquorosi e, anche in questo caso, sono precisi e mirati i riferimenti legislativi e le tecniche di produzione. Sono vini figli delle terre calde del Mediterraneo. Una riflessione particolarmente attenta viene fatta sull’appassimento delle uve.
I vini in degustazione sono due Sherry della cantina Lustau: Moscatel-Emilín-Jerez e Pedro Ximénez-San Emilio-Jerez. Entrambi sono conseguenza di una fermentazione lenta, di un arricchimento in alcol e di un invecchiamento in botti con metodo soleras. Se ne confrontano i colori. Il Moscatel Fino va oltre l’ambra quasi vicino a un color caffè. Il Pedro Ximenez è di un color mogano deciso e di una consistenza ancora più evidente rispetto al precedente. Tutti e due derivati da una grande evoluzione.
Il Moscatel è potente, intenso, complesso e fine, con ricche espressioni di uva passa, spezie delicate e note tostate. Il Pedro Ximenez è intenso, ampio, ricco di sentori di mosto cotto, datteri, confetture di fichi, spezie dolci, note di tabacco da pipa, cacao ed evidenti richiami al miele di castagno. Un forte impatto gustativo che si esprime in dolcezza, calore, morbidezza e saporosità. Un corpo importante per un vino di grande intensità e persistenza. Un vero “dulcis in fundo”.
Si chiude con quest’ultima degustazione il lungo racconto sul vino che ci ha affascinato, emozionato e coinvolto in questa serata di aprile. Per il momento finisce qui, non senza però l’invito di Lucia a considerare quest’incontro come un’occasione per spunti e riflessioni che non hanno avuto la pretesa di dare risposte ma solo di porre interrogativi e dubbi per sollecitare, come degustatori, atteggiamenti più responsabili, meno superficiali, meno succubi delle mode e dei falsi pregi spesso attribuiti al vino.
Per noi l’impegno di ritrovarci per il piacere di ascoltare Lucia Pintore, grande maestra, in un prossimo, non lontano incontro.