Incontro con Samuel Cogliati

Incontro con Samuel Cogliati

da | 29 Giu, 2017

Le aspettative su “Miniature d’Oltralpe” – l’attesissimo incontro con Samuel Cogliati – sono state pienamente soddisfatte, come testimonia il dettagliato resoconto dei colleghi Massaiu e Rossetti pubblicato su questo sito.

In questa sede ci interessa dare qualche informazione in più sul relatore, Samuel Cogliati appunto, scambiando due chiacchiere direttamente con lui.

Quando abbiamo deciso di intitolare “Miniature d’Oltralpe” l’attesissimo incontro con Samuel Cogliati, era già ben presente in noi un’idea artistica della narrazione di queste piccole-grandi realtà dell’enografia francese. E le aspettative sono state pienamente soddisfatte, come testimonia il dettagliato resoconto dei colleghi Massaiu e Rossetti pubblicato su questo sito.

In questa sede ci interessa dare qualche informazione in più sul relatore, Samuel Cogliati appunto, scambiando due chiacchiere direttamente con lui.

Allora, Samuel, del tuo brillante curriculum (giornalista, scrittore, traduttore, editore, consulente, etc.) abbiamo ampiamente trattato in fase di presentazione dell’incontro del 10 giugno scorso. Mi interesserebbe, invece, sapere qualcosa in più sul tuo percorso di avvicinamento al mondo del vino.

È abbastanza semplice: il vino è sempre stato presente in casa mia. Da mio padre, italiano, ho mutuato soprattutto una virtuosa cultura della quotidianità di questa bevanda. Da mia madre, francese, ho ereditato soprattutto il gusto di una visione culturale e identitaria del vino. Una ventina di anni fa mi accorsi – inconsapevolmente – che il vino era uno strumento eccezionale per tenere uniti i miei due paesi. Iniziai a studiare.

La comunicazione, diventata sempre più centrale in questi ultimi anni, è l’aspetto che ha fatto fare un importante salto di qualità alla nostra Associazione, rimanendo, comunque, una sfida continua anche per il futuro. Tu che in questo ambito sei impegnato a 360°, come definiresti la figura del “comunicatore del vino”?

È difficile rispondere, anche perché non credo che esista una declinazione consensuale di “comunicatore del vino”. Forse occorrerebbe iniziare a precisare che cosa sia la comunicazione, concetto molto usato ma non altrettanto chiaro. Io mi ritengo un divulgatore. Credo che il primo mandato di un divulgatore del vino sia evitare compromissioni promozionali e commerciali, assai diffuse in un panorama attuale piuttosto confuso. E occorre ricordare che, per informare bene, non bisogna avere timore di essere critici, anche se questo approccio crea ovvie inimicizie.

Armando Castagno, illustre relatore nonché nostro comune amico, ha sperimentato con successo la formula che prevede il racconto comparato di vino e arte. Pensi anche tu che la multidisciplinarietà, oltre a connotare sempre più il vino come elemento culturale, possa e debba diventare uno dei punti di forza della narrazione enoica?

Armando è un fuoriclasse della narrazione enoica. La sua competenza e la sua sensibilità artistiche rendono il connubio naturale e felice. Io mi lascio talora tentare dal binomio vino-musica, più affine alla mia personalità. Detto questo, credo che la multidisciplinarietà possa essere molto coinvolgente, ma implichi il rischio di fuorviare da un’efficace indagine del vino, che ha a mio avviso invece bisogno di un approccio più scientifico. Soprattutto, la multidisciplinarietà non deve essere obbligata o pretestuosa, per fare “spettacolo”, ma nascere da uno stimolo sincero.

I nostri tempi sono caratterizzati dall’onnipresenza della rete, dalla diffusa convinzione che on line si possa trovare – gratuitamente – qualsiasi informazione e dalla comunicazione rapida e sintetica (con conseguente scarsa considerazione della pagina scritta). Alla luce di tutto ciò, cosa ti ha spinto all’impegnativa e coraggiosa scelta di fondare una casa editrice?

La Rete è una straordinaria risorsa per il lettore, se utilizzata con discernimento e prudenza. Purtroppo per gli editori, rappresenta però anche un rivale con cui ci si confronta ad armi impari. Nel mio caso, la scelta di fare dell’editoria un mestiere fu dettata dal fatto che non ho mai desiderato nulla di meglio. Da sette anni sta funzionando; spero continui a farlo.

Hai dedicato due libri a grandi protagonisti della musica italiana come Vinicio Capossela e Paolo Conte, la cui cifra artistica ben si sposa con la sensibilità di un italo-francese come te. Hai in cantiere qualche altra incursione nel mondo della musica?

Cantieri aperti non ancora. Questi lavori richiedono una quantità di lavoro scoraggiante. Il mio saggio su Conte è frutto di vent’anni di riflessioni, e di due anni di assiduo lavoro. Devo quindi procedere con giudizio. Ma di idee che mi frullano in testa ce ne sono parecchie. Non credo che archivierò tanto presto questo filone.

Torniamo al vino. Qualche anno fa sono stato in vacanza nella tua bellissima città natale, Lione. Durante una gita sul bateau-mouche, ricordo che la guida disse scherzosamente che a Lione scorrono tre fiumi: Rodano, Saona e Beaujolais. Puoi dirci qualcosa in più su questo vino e su questo territorio?

La battuta della guida, molto usitata a Lione, è in realtà mendace, perché a Lione si è sempre bevuto più vini del Rodano o del Mâconnais che del Beaujolais, con il quale non corre buon sangue.

Detto questo, il Beaujolais è per me una regione fondamentale, tanto vituperata e autolesionista quanto necessaria. Vini leggeri, immediati, golosi e spensierati come i migliori Beaujolais di carattere sono imprescindibili in una cultura del vino che deve essere inclusiva, non settorialmente consacrata alle cosiddette “grandi bottiglie”. Ne sono così convinto che il mio ultimo libro è dedicato al Muscadet, altro “piccolo vino” molto sottovalutato.

Durante l’ultimo Congresso Nazionale AIS c’è stata un’importante tavola rotonda, con ospiti illustri come Nicolas Joly, nella quale hai brillantemente svolto il ruolo di moderatore e traduttore. Molti dei libri pubblicati dalla tua casa editrice (alcuni scritti da te) sono dedicati al mondo dei vini naturali. Ci aiuti a trovare una definizione corretta di questa categoria, che faccia piazza pulita di tanti luoghi comuni?

In teoria, la definizione è facile: un vino naturale è prodotto senza prodotti chimici di sintesi in vigna e senza additivi enologici in cantina. La traduzione pratica è molto più complessa e opinabile, perché non si è concordi nello stabilire quali prodotti o quali pratiche consentire. Il dibattito è lungi dall’essere chiuso, ma io spero soprattutto che ci si possa tenere a distanza dalle categorizzazioni troppo nette. Il vino mal si presta a essere incasellato.

Come abbiamo potuto renderci conto direttamente, tu hai una grandissima e dettagliata conoscenza dell’enografia francese, in tutte le sue sfaccettature. Oltre alla compresenza di vitigni “cugini” (vermentino, cannonau-grenache, etc.) pensi che ci siano aree vinicole della Sardegna che si possano accostare a qualche territorio francese?

Purtroppo conosco troppo male la Sardegna e i suoi vini per rispondere in modo pertinente. In generale, mi permetterei solo di sconsigliare i paragoni tra luoghi: il bello del vino è proprio che mette (o dovrebbe mettere!) in luce la peculiarità della sua origine geografica.

Ogni luogo, ogni vitigno, ogni assemblaggio di vitigni ha interesse e dignità, se ha ragion d’essere. Anche la ricerca di parentele ampelografiche mi sembra rischiosa: se non livellati da identiche selezioni clonali, le varietà parenti sono varianti locali con una radice comune. E le differenze, in questo mondo, sono molto più belle dell’omogeneità!

Bene, caro Samuel, giunti al termine di questa chiacchierata non resta che salutarci con una formula bilingue: Au revoir – A nos bìdere!

A nos bìdere!

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