da Rossella Lupo - Delegazione Cagliari | Dic 16, 2021 | 2021, Articoli
450 ha vitati, 80 produttori, 6 cooperative. Un vero e proprio microcosmo, la realtà vitivinicola valdostana. Da una parte una conformazione geologica tra le più interessanti del territorio peninsulare, dall’altra un disciplinare permissivo, hanno reso nel tempo questa piccola regione un caleidoscopio di vini e vitigni. Al contrario di quanto la sua posizione possa far pensare, incastonata tra le Alpi Occidentali, chiusa tra i massicci più alti d’Europa, la Valle d’Aosta racconta una storia di grandi scambi e di crocevia internazionali.

Donnas
“Sé te me fèi pleù, tè fio pé tsante”, recita un detto valdostano in lingua franco provenzale: “Se mi fai piangere, io ti faccio cantare”, riferito al pianto della vite in primavera in prossimità dei segni delle potature. Questo ci racconta di come, nonostante il disciplinare della DOC Valle d’Aosta (o Vallée d’Aoste) sia storia recente, introdotto come disciplinare unico solo nel 1985, il vino è, al contrario, da sempre parte della cultura valdostana, dai tempi delle libagioni di vino a Giove Pennino nel 63 d.C.
Giulio Cesare amava i vini di Carema e dell’Augusta Praetoria Salassorum (Aosta), la città dei Salassi, allevatori di vite e consumatori di vino secco. I cru valdostani sono poi realtà testimoniata già nel 515 d.C., quando Sigismondo re dei Burgundi, regala un cru valdostano ai religiosi. La tradizione vitivinicola della regione, come spesso accadde in Europa, fu poi mantenuta nei monasteri.

Arnad-Montjovet
Per comprendere al meglio la produzione vitivinicola valdostana, immaginiamo di percorrere un vasto sentiero che da Ovest porta a Est, sulla scia di quell’immenso ghiacciaio che, ritirandosi, ha dato origine alla Valle. Ci muoviamo quindi da Occidente, dove Morgex et la Salle strizza l’occhio alla Francia con la sua produzione di grandi vini bianchi.

Enfer
Proseguiamo al centro Valle, siccitoso, con Arvier e Torrette che regalano vini di corpo e struttura, per approdare a Donnas, che con il suo picotendro – il nebbiolo valdostano – ci accompagna verso il Piemonte. Lungo questo sentiero vivono e convivono una grande quantità di vitigni, dai più nobili internazionali ai più fortemente autoctoni, coltivati con fatica ed eroismo, a mille e più metri di altitudine, per lo più a pergola bassa, per fare in modo che l’apparato fogliare delle viti capti quanti più raggi solari possibile.

Altai Garin (foto tratta da pagina Facebook AIS Cagliari)
A raccontarci tutto questo, e molto altro, è Altai Garin, giovanissimo valdostano DOC, testimone di un’epoca di forti cambiamenti nel modo di intendere la viticoltura tradizionale in Valle d’Aosta, e di grande impulso imprenditoriale verso una viticoltura sempre più sostenibile e con un devoto rispetto del vino e della sua naturalità. I vini selezionati per la degustazione sono produzioni monovarietali di piccoli produttori locali, lontani dallo stile classico e austero delle grandi Maison, ma caratterizzati piuttosto da forte entusiasmo, dinamismo e desiderio di innovazione.
Qui di seguito qualche appunto di degustazione relativo ad alcuni dei vini proposti, rappresentativi di una Valle d’Aosta tanto insolita quanto schiettamente autentica:
Le Sette scalinate, Vallée d’Aoste Blanc de Morgex et La Salle DOC 2018 – Ermes Pavese
Prié blanc (autoctono) in purezza, proveniente da un solo vigneto, coltivato a pergola bassa fino ai 1200 metri s.l.m. su terreni sabbiosi di montagna. Le Sette Scalinate sono i sette costoni ricavati per la coltivazione della vite sulla montagna, e riprodotti anche in etichetta. Questa versione di prié blanc, esclusivamente in formato Magnum – rarità a trovarsi – è il “canto del prié blanc”, dove alla componente fortemente floreale si affiancano piacevoli profumi che ricordano i granai, l’orzo macerato, il grano arso e una nota di marzapane, a testimoniare il passaggio del vino sulle sue stesse fecce fini. Morgex et La Salle detiene il monopolio del Prié Blanc, che, essendo un vitigno precoce, ad altre altitudini rischierebbe di maturare troppo in fretta e di rovinarsi, data la sua buccia finissima.

(foto tratta da pagina Facebook AIS Cagliari)
Lie Petite Arvine – Vallée d’Aoste DOC 2019 – Maison Maurice Cretaz
Vitigno svizzero, originario del Canton Vallese, dal buon bagaglio aromatico e con una buona componente di acidità. Questa versatile versione di Maurice, risultato di uno dei cru valdostani più storici, figlia di un’agricoltura biologica e biodinamica, e proposta in veste leggermente macerata, sprigiona dal suo contatto con le bucce i profumi più dolci di pesca nettarina, albicocca, zest di agrumi, bergamotto. Non da meno è la sua mineralità, con iniziali note di grafite, e pietra focaia agli assaggi successivi.
Tacsum – Vino bianco macerato 2019 – VinTage
Questa etichetta, omaggio alla Sardegna, è di Elisabetta Sedda, valdostana di origini sarde. “Tacsum”, provate a leggerlo al contrario. Il moscato in questione è il moscato bianco “ à petits grains”, caratteristiche principali: grande aromaticità, alta acidità. Questo moscato, macerato per due sole settimane e brevemente affinato in botti usate di rovere, è un’esplosione di freschi profumi di montagna, acqua di fiori. Siamo a Chambave, l’etichetta non ce lo dice, ma il vino lo grida a voce alta.
Prëmetta, Vallée d’Aoste DOC 2020 – Grosjean
Prëmetta, o prié rouge, o ancora, neblou. Vitigno grigio autoctono, raramente vinificato in solitaria, lo troviamo qui solo e di rosso vestito. Rosso corallo, netto nei profumi di piccoli frutti a bacca rossa, fresco, delicato, asciutto. Siamo a Torrette, l’areale vitivinicolo più coltivato e il più esteso dell’intera regione, nonché unico a possedere due esposizioni, Envers la destra orografica della valle centrale, solcata dalla Dora Baltea, esposta a nord, dimora dei vigneti centenari, e Adret, la sinistra orografica, esposta a sud, che ospita i vigneti mediamente più giovani e monovarietali. La cantina, che coltiva in regime biologico, porta avanti da diversi anni l’iniziativa “Adotta un cru”, grazie alla quale è possibile partecipare ai momenti più importanti della stagione vinicola e sentirsi, così, piccoli proprietari terrieri in Valle d’Aosta.
Cornalin, Vallée d’Aoste DOC 2018 – Les Granges
Immaginiamo una collina, e in cima a questa Les Granges, l’azienda agricola che prende il nome dall’omonimo villaggio, e che accanto alle sue viti coltiva per tradizione uva, cereali e ortaggi, da qualche anno in biodinamica. Cornalin è un rosso autoctono. Sparisce dalla Val d’Aosta per venire coltivato nel Canton Vallese sotto il nome di “humagne rouge”. Ritorna poi negli anni settanta grazie al lavoro dell’Institut Agricole Regional. Se vinificato in purezza sviluppa profumi di grande evoluzione già dopo pochi anni.
Fumin, Vallée d’Aoste DOC 2019 – Ottin
Viticolteur encaveur, fa vino prima di tutto perché ama coltivare la terra. “L’importanza del lavoro svolto da chi coltiva la terra sta alla base del miracolo della vita. Ecco chi è davvero il contadino: un intellettuale della terra, colui che dà la vita.” Queste parole, alla base del pensiero di Ottin, ci vengono in aiuto quando assaggiamo per la prima volta questo rosso, ancora tannico ma dalla grande complessità aromatica. Vero, schietto, dritto, non perde tempo con inutili gentilezze. Appartiene alla categoria “I vini che piacciono, e non quelli che si fanno piacere”.
Questa serata, la prima, finalmente, dopo diversi mesi di fermo per soci e amici dell’AIS Cagliari, ha un gusto particolare di commozione, il profumo di un nuovo inizio, ma soprattutto, ci ha ricordato la vera magia del vino: quella di farci viaggiare senza la necessità di mettersi in macchina, o prendere un aereo. Anche se ora il desiderio di calpestare i sentieri vinicoli valdostani è ormai inarrestabile!
da Giorgio Demuru (Delegazione Sassari) e Alessandra Corda (Delegazione Gallura) | Nov 2, 2021 | 2021, Articoli
L’estate scorsa ho trascorso una piacevolissima settimana tra Valle d’Aosta e Borgogna. Poco prima della partenza, l’amica e collega Alessandra Corda mi ha proposto, un po’ sul serio e un po’ per gioco, di farle avere ogni giorno una sorta di diario di viaggio, in vista di un possibile futuro pezzo da scrivere a quattro mani. Con grande disciplina ho trasmesso ogni sera via whatsapp i miei appunti di viaggio, fornendo ad Alessandra qualche spunto per le sue sempre puntuali “variazioni sul tema” (riportate in corsivo nel testo). Ne è venuto fuori questo duetto, testo + ipertesto, difficilmente inquadrabile. Il rischio autoreferenzialità è ben presente, d’accordo, ma il vino, si sa, è condivisione. E anche le chiacchiere sul vino, in fondo…
Giorno 1
È il giorno dell’arrivo, in auto, da Linate. Il viaggio scorre tutto sommato veloce e piacevole. Dopo l’iniziale intrico di svincoli e tangenziali, il paesaggio si snoda su ambientazioni tipicamente padane. All’approssimarsi di Carema iniziano le alture e compaiono le suggestive vigne terrazzate sul lato destro della strada. Immagine che prosegue con l’ingresso in Valle d’Aosta, nello specifico nell’area di Donnas, in cui è ancora ben presente l’influenza piemontese evidenziata dalla coltivazione del nebbiolo, qui chiamato picotendro.

La strada (e le vigne) seguono grosso modo il corso della Dora Baltea (ah, ecco, esiste: non è solo il primo “verso” – seguito dalla Riparia – dell’elenco degli affluenti del Po). Aosta è una città medio piccola, pulita e ordinata. Fa molto caldo, sembra di stare a casa. Troviamo un bel posto, La vineria, dove il personale, cortese e competente, ci indirizza verso qualche assaggio piacevole e “didattico”. Il panino della casa vincerebbe le resistenze di chiunque: praticamente un doppio sandwich (pane buonissimo) con salsiccia locale cotta alla piastra e “inondata” di fontina calda. Poi taglieri con formaggi (tome, alcuni caprini, qualche erborinato) e salumi (tra cui il lardo e la gloria locale mocetta). Nella scelta del vino decido di orientarmi su un’azienda giovane, Tanteun e Marietta, nomi dei bisnonni degli attuali proprietari, e un vino pure lui giovanissimo (vendemmia 2020), Lo Tocque, un rosso a base petit rouge, cornalin e mayolet, vinificato in acciaio. Uno spettacolo. “Didattico” per capire cosa sia il descrittore “floreale”, poi ribes, lamponi, una spruzzata di pepe nero. Assaggio euforico che crea dipendenza, con una leggiadria che spesso, nella lavorazione dei rossi, viene dimenticata.

Assaggiamo anche un bicchiere di Donnas Napoléon 2016, delle Caves coopératives de Donnas, a base nebbiolo (picotendro) con oltre un anno di permanenza in botte grande. Buono, piacevole, però mancante della leggiadria di cui sopra. L’incontro con la Cave du Mont Blanc è invece un passaggio a vuoto, purtroppo. Cantina cooperativa con i vigneti tra i più alti d’Italia (1.200 metri), dedicata a un solo vitigno, il prié blanc: entriamo nel punto vendita, non è possibile visitare la cantina (e neanche i vigneti), assaggiamo due spumanti metodo classico non proprio entusiasmanti. Sensazione generale di appuntamento mancato, servirebbe una seconda possibilità. Cena a La Thuile, nel ristorante Pepita Café, i cui proprietari sono di origine sarda (Assemini). Tanti piatti tipici (pappardelle al ragù di cervo, tortelloni alla fontina, cappello del prete brasato, etc.) e un bel vino della celebre Maison Anselmet, La Touche rouge 2018, a base petit rouge, cornalin e fumin. Un vino giovane e di personalità, profumi di more, viole e pepe nero, assaggio fresco, invitante, con un tannino gentile ma non banale. Finale amaricante e balsamico. Non abbiamo iniziato male, direi!
#leggiadria
Caro Giorgio, quando per gioco ti ho proposto questo scambio tra chi resta e chi parte, ho pensato che l’altro binomio parallelo sarebbe stato, inevitabilmente, chi assaggia e chi legge. Nella narrazione del vino, questo racconto di sensi, luoghi e persone potrebbe diventare un tempo diverso, se solo riuscissimo a trovare una chiave, anzi due, per fare in modo che i tuoi assaggi siano un fermarsi e soffermarsi senza peso, a calice vuoto e a calice pieno, con leggiadria appunto, come scrivi dei rossi che hai degustato nella prima tappa sulla via di una Mecca enologica mondiale. Se penso alla Valle d’Aosta penso alla rarefatta atmosfera che genera l’altitudine e alla fatica della maturazione. Molto più che in altri casi si impone la consuetudine, “su connotu” (il conosciuto, il consueto) diremmo da sardi, ovvero quelle varietà che lì si prediligono perché si sono acclimatate meglio e si sono evolute in quelle specifiche condizioni naturali. L’insegnamento che si potrebbe trarre, però, vale a tutte le latitudini e abbiamo voglia noi di tagliar corto, qui sull’isola, con syrah e cabernet rinvigorenti. Dote bella e rara, nei rossi, la leggiadria; ne sento la mancanza, a volte, e auspico l’arrivo di una nuova stagione produttiva in cui lo stile si orienti sempre più verso la grazia e l’eleganza fine (magari da vitigni a bacca rossa minori) e sempre meno verso la dominante carnosa e alcolica.
Giorno 2
Mattinata dedicata al trekking, con il cosiddetto percorso dell’orrido, a Pré-Saint-Didier, a poche centinaia di metri dalla nostra abitazione. Un sentiero di circa un chilometro che si snoda su una pendenza di duecento metri e conduce alla spettacolare passerella sospesa nel vuoto.

Pranzo veloce in una focacceria, accompagnato da una sempre piacevole birra Menabrea. Seguendo l’inerzia della salita, tardo pomeriggio a Courmayeur e cena al ristorante La terrazza, con uno dei classici del “pasto condiviso”, la Bourguignonne. Per l’accompagnamento siamo tornati alla Cantina Tanteun e Marietta: stavolta la scelta è ricaduta sul Valle d’Aosta DOC Farouche 2018, a base petit rouge con un saldo di cornalin, vien de nus e gamay, lavorato in acciaio. Colore ancora giovanile sui toni del rubino, profumi intensi di ciliegia, rosa e chiodi di garofano, con qualche ricordo di tostatura. Al palato mostra un carattere notevole, mettendo insieme la giovanile freschezza, una buona avvolgenza e tannini eleganti e di ottima fattura. Un finale tra il fruttato e un accenno balsamico completa un assaggio pienamente soddisfacente, ulteriore conferma per una cantina che continua a sorprendere.
#inerzia
Muoversi sui sentieri di montagna è estremamente educativo nello stimolo della nostra inerzia, ci spingiamo oltre quando serve, rallentiamo se necessario e prestiamo attenzione prima di muovere il passo. Il corpo e l’attitudine emotiva ne escono bene, rinvigoriti e tonici. L’inerzia chimica dei tank di acciaio e il freddo controllato sono invece necessari quando abbiamo bisogno di portare a compimento un quadro gusto-olfattivo definito dalle sole molecole dei mosti. Liberate dagli zuccheri si evolveranno sottili e precise se la mano è buona, fragranti e pure, come quelle di due tuoi assaggi di questa giornata. Nessun altro elemento interagisce. La condizione riducente può essere amata o no. Un po’ come nei sentieri di montagna, le passerelle sospese sono corridoi forzati che, se vogliamo, potranno essere una grande opportunità, oppure inevitabilmente mettono a nudo le nostre fragilità, la mediocrità della nostra materia intima, la stoffa, come in certi vini, senza alcuna addizione da “passaggi obbligati” o “passerelle” in legno.
Giorno 3
Giornata dedicata al Monte Bianco, con ascesa tramite cabinovia verso le due fermate di Pavillon (2.173 m.) e Punta Helbronner (3.466 m.).

Panorami mozzafiato che abbiamo avuto la fortuna di apprezzare ancora di più grazie a condizioni meteo ottimali. Nella prenotazione della cabinovia era incluso anche il pranzo nel ristorante di Punta Helbronner, con la formula “bevande escluse”. La carta dei vini offre qualche spunto interessante e opto per un Torrette Supérieur 2019 Vigne Rovettaz dell’azienda Grosjean. Anche questa sottozona della DOC Valle d’Aosta prevede l’utilizzo di diversi vitigni autoctoni: alla base principale costituita dal petit rouge si aggiungono piccoli saldi di cornalin, fumin e prëmetta. Come ho avuto modo di verificare negli ultimi giorni, è sicuramente questa una delle più efficaci espressioni del terroir valdostano che si manifesta attraverso rossi giovani, freschi, saporiti e di buona personalità. L’etichetta dell’azienda Grosjean ricalca perfettamente questa descrizione. Vivacissimo colore rubino e intensi profumi di ribes e rosa con rimandi a spezie piccanti e una cornice minerale di roccia.

E come al solito è al gusto che si gioca la partita più importante: agile, saporito, vibrante e con tannini grintosi ed eleganti, per una beva invitante e piacevolissima. In serata, passeggiata a Courmayeur con assaggio di un altro Torrette, annata 2020, prodotto dall’azienda Les Crêtes. Più semplice del quasi omologo precedente, ma sempre di buon livello, è stato probabilmente penalizzato da una temperatura di servizio troppo alta. Chiusura “fuori contesto” con uno straordinario Quinta do Panascal Porto Vintage 1999 dell’azienda Fonseca. Anche in questo caso, temperatura di servizio non perfetta e bicchiere un po’ penalizzante, però alla lunga sono emerse ugualmente tutta l’articolata potenza aromatica e una beva ricca e affascinate che non si scorda facilmente.
#fuoricontesto
Come ti invidio in questi giorni torridi, tu lassù nell’aria rarefatta e pura delle Alpi e io qui, nel pieno dell’enfasi della stagione balneare. Distese di auto arroventate nei parcheggi a ridosso delle spiagge, infradito sudate, tatuaggi improbabili, mojito nei bicchieri di plastica, “porceddu” in agriturismo. Mi sento volentieri fuori contesto, molto peggio del tuo Porto degustato lì. Ci si sente sempre fuori contesto quando non si riesce a leggere la realtà, quella che sta accadendo intorno. Sto invecchiando oppure sto seriamente apprezzando un minimalismo formale anche nella fattura dei vini.

Il Porto lì è esotico, e l’esotico è un fuori contesto ben riuscito, è sempre un voler stare altrove, ma si alimenta di immaginario e non di esibito. Così per me la Valleé, come la chiamano i valdostani, è esotica, un altrove dove non sono mai stata e che fino a qualche stagione fa non avrei pensato di appuntare fra le mete enofile future. E soprattutto il punto di osservazione che fa la differenza. Questo tuo passaggio alpino prima di varcare il confine mi solletica degustazioni e assaggi che puntano verso rossi snelli e fragranti, niente affatto banali e pure convincenti per finezza di beva, più intensità pulita che complessità di aromi.
Giorno 4
Si varca il confine, attraverso lunghe e laboriose code presso il traforo del Monte Bianco, e ci si dirige decisamente verso la Borgogna, arrivando dalla parte meridionale, all’altezza di Mâcon, e proseguendo verso nord. L’autostrada è costeggiata da sterminate distese di mais e girasoli, alla nostra sinistra si intravedono le prime colline vitate.

Spostandosi sulla statale, all’altezza di Nuits-Saint Georges, il paesaggio cambia decisamente: vigneti ovunque, a parte le sommità delle colline ricoperte di boschi. Attraversiamo piccoli paesini-gioiello, come Nuits-Saint Georges e Vosne-Romanée, dove si rende necessaria una sosta per il doveroso “pellegrinaggio” verso i celeberrimi Grand Cru Romanée-Conti, Richebourg e La Tâche. L’arrivo a Digione ci mostra una città di medie dimensioni, ordinata e suggestiva. Ceniamo in un bistrot e degustiamo un paio di calici: un trascurabile Crémant de Bourgogne e un più convincente Marsannay Vielles Vignes 2018 dell’azienda di Marguerite Girodet.

Marsannay è la più settentrionale delle appellation borgognone e dà vita a vini semplici, piacevoli e discreti con, qua e là, qualche guizzo. Il nostro calice ha mostrato un bel binomio frutto-spezie e una beva saporita e di buona gradevolezza.
#gioiello
Il valore assoluto alle cose lo diamo noi, con la nostra conoscenza, le nostre passioni, la personalissima lettura delle realtà, insomma cose che non hanno prezzo. Nelle nostre esperienze sensoriali molto viene deciso proprio dalla narrazione, soprattutto quando si tratta di un prodotto voluttuario come il vino, e la suggestione è cosi forte, come hai scritto tu, che alla fine in quei luoghi si va in pellegrinaggio. Le bottiglie di quei cru, o meglio climat, quelle che tutti vorremmo bere, sono nell’empireo degli investimenti mondiali del vino, come un graal lanciato nella postmodernità. Per metafora, la superficie delle cose e la loro profondità hanno però sempre un gap da colmare. I trattamenti di quei suoli fra gli anni ‘60 e ‘90 non sono stati affatto biologici, neanche biodinamici. Del resto, per i caratteri climatici il vigneto borgognone non può non risentire degli effetti delle brume, della permanenza di umidità atmosferica, e l’oidio vince dove può. Meglio restare in quella che ora lì in Borgogna chiamano “la flexibio”, ovvero prendersi il sicuro e portare a casa il risultato dopo il disastroso 2016. Quando l’incanto si spezza ci resta lo sguardo sul peso della storia che non sempre è stata democratica, ma di sicuro più interessante della deriva “luxury” contemporanea. Soprattutto, ripenso alla capacità esperienziale che generazioni di monaci in Borgogna hanno avuto nel leggere la natura delle cose. Per esempio, proprio i suoli, quella composizione finemente studiata in tempi a noi molto vicini da Claude Bourguignon, che insiste sulla ricchezza biotica necessaria e sulla sua interazione con le componenti inorganiche: i veri gioielli, insomma.
Giorno 5
All’alba prendiamo il treno per Parigi, un TGV. Arriviamo nella Ville Lumière all’ora del petit déjeuner, poi l’attraversiamo in lungo e in largo, dalla Gare de Lyon all’Arc de Triomphe, passando per la Bastille, l’Île de la Cité, il Louvre, Place Vendôme, Place de la Concorde e Champs Élisées.

Proprio in zona Champs Élisées pranziamo all’aperto, in un bistrot. Sulla carta dei vini leggiamo Chardonnay de Bourgogne e decidiamo di provare. Arriva uno Chardonnay, sì, ma Pays d’Oc IGP Le Sudiste 2020. Non abbiamo grandi aspettative, e puntualmente il calice non ci smentisce, proponendoci un vino semplice e scolastico, seppur con qualche lampo sapido e una beva che, comunque, non ci lascia delusi del tutto. Il giro prosegue verso Trocadero e Tour Eiffel, poi in metro verso il Beaubourg e il Marais, con tappa obbligatoria in Place des Vosges. Infine, di nuovo in stazione, si rientra a Digione dove ci attende la cena al Doctor Wine, un ristorante dalla carta dei vini “monstre” e con la particolarità di proporre i piatti in quantità ridotte (tipo mezze porzioni), così da consentire un maggior numero di assaggi (e magari di abbinamenti con vin au verre). Iniziamo con un ottimo Crémant de Bourgogne Blanc de Noir dell’azienda Huber-Verdereau: profumi penetranti di pompelmo rosa e lieviti, assaggio corposo a appagante, con una leggera vibrazione tannica e una bella chiusura salina.

Su suggerimento del cameriere, competente ma un filo logorroico, scegliamo la seconda bottiglia: un Savigny-lès-Beaune 2016 del Domaine Maillard Père & Fils, convincente e più che soddisfacente, con la puntuale scansione aromatica (peonie, ribes, un’idea di spezia piccante) e l’assaggio gustoso e brillante nel gioco di sponda fra acidità e tannini rifiniti. Un Pinot Noir che accompagna al meglio i piatti di carne che, nel frattempo, hanno fatto capolino sulla nostra tavola (soprattutto le canard). Per l’ultimo assaggio (bœuf à la bourguignonne) decidiamo di provare qualche altro vino al bicchiere. Il solito cameriere, in due parole (insomma…), ci indirizza verso un Beaune 2014 sempre del Domaine Maillard e un Marsannay 2018 del Domaine Philippe Livera.

Inizialmente, il primo convince un pelino meno del cugino Savigny, per l’impatto olfattivo più “oscuro” e un’acidità un po’ sopra le righe. Qualche minuto nel bicchiere gli consente tuttavia di riprendersi alla grande e di sorprendere con un piacevole ritorno aromatico di frutti neri nell’articolato finale. Il Marsannay mostra i muscoli, un po’ in controtendenza rispetto ai prodotti più canonici di questo areale: colore denso, profumi netti di cassis, viole e chiodi di garofano, assaggio deciso e potente, con una progressione comunque centrata ed educata. Perfetto per il bœuf!
#vinoalbicchiere
Parigi è sempre Parigi, ma a quanto pare il grosso della tua giornata per palato e olfatto è accaduto a Digione. Vini al bicchiere e pure buoni: ma perché qui da noi si fatica ancora a incontrare questa formula? Vale il principio dei salotti delle vecchie zie: poco usati, sono invecchiati con ancora il nylon sui cuscini. E le zie che avevano investito, poi si sono lamentate che nessuno li ha usati, quei cuscini. Ma perché, in attesa dell’ospite buono, agli altri è stata proposta solo la sedia della cucina? Ne vorrei di posti “vin au verre” sempre di più, senza dover andare in uno nei distretti gastronomici più importanti al mondo. Ne vorrei molti di più nel panorama provinciale, nelle vinerie che hanno molto, tanto jazz in sottofondo, ma carte dei vini ancora troppo regionali, con sporadiche incursioni nelle ultime tendenze. Quei posti, insomma, dove ormai se provi a chiedere un buon bianco NON macerato sulle bucce sei trattata come una vecchia zia.
Giorno 6
Mattinata dedicata a un giro turistico per le strade di Digione, una città aggraziata che conferma le ottime impressioni maturate al primo impatto. Ne approfittiamo per qualche acquisto nel punto vendita dell’azienda Maille, storico marchio della celebre Moutarde de Dijon, prima di lasciare l’albergo e partire in direzione Beaune.

Arriviamo all’ora di pranzo e ci dirigiamo subito al ristorante Le Bacchus, dove abbiamo prenotato. Un locale piccolo e accogliente, con un vano cucina ugualmente essenziale ma capace di sfornare piatti di livello tra l’ottimo e l’eccellente. Dalla carta dei vini molto curata scegliamo un Santenay-La-Comme 1er Cru 2016 del Domaine Michelot: senza dubbio la migliore bottiglia degustata nella breve parentesi in Borgogna. Eleganza e prestanza fanno da filo conduttore ad un assaggio che propone profumi definiti di more, rose e un accenno di liquirizia, ma soprattutto una fase gustativa memorabile per definizione, equilibrio e souplesse. Perfetto soprattutto affiancato all’eccellente Magret de canard. En passant, qualche altro piatto che si è distinto particolarmente: un sorprendente risotto con le verdure della ratatouille, mantecato con olio, mascarpone e Parmigiano, le uova cotte perfettamente e guarnite con una salsa ai funghi e, infine, le patate (vere, non agglomerati) fritte.

Dopo pranzo, visita all’Hôtel-Dieu e piccolo giro tra Pommard, Meursault e Puligny, poi rientro a Beaune per un aperitivo “lungo”, bagnato con una bottiglia di Crémant de Bourgogne Blanc de blancs Brut Vitteaut-Alberti, di buon livello. Dopodiché, in auto fino alla Valle d’Aosta!
#souplesse
Ah, che incanto il francese! Provo a tradurre questa parola, souplesse, e non riesco a rendere lo stesso fascino che si porta dietro il suono e il significato che la riguarda. Per fare vini come tu li hai descritti, si deve avere nelle proprie radici tutto il corredo culturale, il palato, il gusto della vita e una abbondante quota snob che loro e solo loro, i francesi, hanno. Non si potrebbe rendere meglio il passaggio nel nostro palato di un Pinot Nero di Borgogna come tu lo hai reso nella sintesi delle parole. Come nessuno avrebbe potuto rendere meglio, nel lungo piano sequenza, la corsa di un ragazzino sulla spiaggia nell’ultima scena dei “Quattrocento colpi”, film del 1959 diretto da François Truffaut. Lì si legge esattamente quello che scrivi del Pinot: eleganza, prestanza e souplesse, che qui arriva alla fine e ti coglie con lo sguardo tenero e vissuto del giovane protagonista nell’intenso primo piano che chiude il film. Fin.

Giorno 7
Oggi terme e relax, per chiudere in bellezza. Pranzo alle terme… vabe’, passiamo oltre! Trasferimento all’aeroporto di Linate e cena con triste (ma caro) panino al bar del gate. Non abbiamo toccato alcol per tutto il giorno, e questa è la vera notizia! Ora, a Sassari, scrivo queste righe… Buonanotte!
#gate
Passare oltre è un arte rara, e a volte neanche sedute di meditazione zen intensive sono sufficienti a tenerci in equilibrio fra la bellezza e la mediocrità. Ci capita di vivere il quotidiano e lo straordinario, Nuits-Saint Georges e l’imbarco a Linate. Le due cose a volte sono compresenti, quando questo succede è un piccolo miracolo. Quanto sento parlare di vino “quotidiano”, penso che da qualche parte qualcosa è andato storto. Per me, che bevo poco vorrei bere bene il più possibile, anche un panino merita un vino buono, anzi lo merita quasi di più. Il vino non è più nutrimento. Non è necessario ai nostri bisogni alimentari, allora che sia buono, e ogni volta sia una narrazione sensoriale extra-ordinaria.